Ricordiamo tutti l’invasione dell’Iraq. Quel giorno, il 20 marzo del 2003, le forze armate di terra inglesi ed americane penetrarono nel deserto iracheno come la lama di un coltello penetra nel burro, mentre le forze aeree spianavano la strada dall’alto. Le tv in mondovisione trasmettevano la gloriosa avanzata e noi ci stupivamo che le truppe del pericolosissimo Saddam Hussein non tirassero fuori gli armamenti per respingere il nemico. La parola d’ordine era: alla caccia delle armi di distruzione di massa. Alcuni, addirittura, speravano di entrare tanto velocemente da potere trovare la cosiddetta pistola fumante, ossia la prova evidente, ancora calda, del tentativo da parte dell’Iraq di dotarsi di armi biologiche.
Si temeva che l’esercito iracheno stesse tendendo un’imboscata, asserragliando le sue truppe dentro le città. Ma niente accadde di tutto questo, o quasi. Dunque, conquistata con estrema rapidità Baghdad, bisognava legittimare l’invasione trovando le prove del tentativo da parte di Saddam Hussein di dotarsi di armi di distruzione di massa.
E’ qui che, nella finzione scenica, inizia la storia di Roy Miller (Matt Damon), un ufficiale luogotenente di una squadra dei marines, il cui compito è quello di individuare i siti nei quali sono nascoste le pericolosissime armi segrete.
Le informazioni raccolte dall’intelligence, però, si rivelano errate e la squadra di Miller capita anche in padiglioni nei quali riesce a constatare soltanto la pericolosa presenza di escrementi di piccione, nascosti nei siti da parecchi anni.
Alla terza segnalazione errata, la squadra di Miller si ritrova in una fabbrica di cessi. A questo punto, Miller comincia a sospettare qualcosa e chiede di potere parlare con il colonnello, diretto superiore di riferimento. Inseguendolo nei corridoi, gli chiede senza mezzi termini cosa stia succedendo all’intelligence e questi gli consiglia di essere cauti: «Una tempesta di merda si sta per abbattere su di noi». Perché da quelle parti si parla così, come al Quarantunesimo distretto del Bronx. Ma Miller non si arrende facilmente, perché altrimenti cosa ce l’hanno messo a fare nel film? Ed eccolo insistere: «I dati sono sbagliati!». Il superiore gli dice che non è il momento e lui contrattacca, durante il summit per fare il punto delle operazioni: «Qual è la fonte che ci ha fornito i nomi dei siti, nei quali non abbiamo finora trovato niente?». I superiori ribattono ordinandogli, piuttosto, di fare meglio il suo lavoro.
La prossima tappa è Al-Mansur, dodici chilometri da Baghdad. Si dovrebbe trattare di un sito di stoccaggio sotterraneo. Tutti con gli occhi aperti, dunque, perché lungo la strada si verificano pericolosi attacchi. E’ a questo punto che si presenta Martin Brown della CIA, il quale gli dice che sta sprecando il suo tempo: quel sito è già stato visionato e non c’è assolutamente nulla.
Qualcosa non quadra: gli iracheni non combattono, non usano armi proibite, li lasciano arrivare lì dove trovano armadi vuoti, fame e miseria. Miller si reca comunque al sito. Intanto, nella Green Zone, si studia il nuovo assetto che dovrà avere l’Iraq. L’Autorità provvisoria delle forze di coalizione sta preparando l’assemblea per la libertà dell’Iraq, alla quale sono invitati i rappresentati delle principali etnie del paese. Ma, nel frattempo, ha in mente il nome della personalità che dovrà assumere il potere. Perché è nelle zone pulite che si combinano gli sporchi affari.
Martin Brown, l’uomo della CIA, si oppone. Ritiene che non si possa consegnare il Paese ad un esule, appena rimpatriato, che non ne conosca bene l’esplosiva situazione. Pensa, invece, che sia più logico mettere a capo del nuovo governo un uomo dell’esercito, che possa fare comodo agli Stati Uniti e – senza traumi e bagni di sangue – succedere a Saddam Hussein.
Miller e la sua squadra riescono, in modo abbastanza fortuito, ad ottenere l’informazione preziosa che l’intelligence non riesce ad ottenere: conoscere il luogo dove si svolge la riunione segreta delle forze reazionarie del generale Mohammed Al-Rawi, il Jack di fiori del Most-wanted iraqi, il mazzo di carte in dotazione all’esercito USA, con il quale sono segnalati i più pericolosi alleati del vecchio regime.
E così Miller, di testa sua, abbandona la caccia ai siti che non si trovano e fa irruzione nel covo della riunione. Da questo punto in poi, Miller non si muove più come un marine, ma come un agente segreto, fregandosene di tutto e di tutti e agendo di testa sua, come farebbe il Jason Bourne di The Bourne Supremacy dello stesso regista Paul Greengrass: fa a pugni, spara, si sposta su auto civili, contatta a livello personale il responsabile della CIA, corre, sfonda porte e «Ora, ora, ora! Muoversi, muoversi! Usciamo, andiamo, andiamo! Libero, libero!».
Ma la situazione non è semplice, perché Washington, che dovrebbe muoversi sui binari delle regole e della legalità, vuole stroncare sul nascere ogni focolaio di rivolta, anche a costo di trasgredire regole e legalità; mentre la CIA, che di trasgressioni se ne intende davvero, vuole trattare con Miller e con il generale Al-Rawi. Il risultato è che i pezzi deviati dell’esercito fanno il gioco sporco e quelli fuoriusciti dallo stesso giocano pulito per la CIA la quale, a sua volta, si ingerisce di fatto in questioni di diplomazia.
Insomma, è un groviglio inestricabile. Anche perché, nel frattempo, il punto interrogativo rimane: le armi di distruzione di massa ci sono, sì o no?
E non sperate di scoprirlo leggendo qui, perché nessuno lo sa, nel film come nella realtà. E se non lo sanno loro, cosa ne può sapere l’uomo comune, quello della strada, che ignora finanche dove la donna delle pulizie abbia conservato i calzini buoni, comprati la settimana scorsa? L’uomo comune ancora si sta chiedendo come nasca un’invasione e vuole sapere perché non si riescano ad individuare i siti pericolosi, attraverso i potenti satelliti che sorvolano la sua testa a tutte le ore e latitudini. L’uomo comune vorrebbe che la CIA ed i vari servizi segreti del mondo potessero fornire ogni notizia utile per estirpare la mala pianta del terrorismo alla radice; che finalmente si potessero catturare uomini pericolosi che – per certo – non vivono dieci anni di seguito senza uscire dalle grotte. L’uomo comune semplicemente non sa. L’unica cosa che sa è che vorrebbe la pace.
L’uomo comune non crede che il luogotenente Miller e la sua squadra si possano muovere come la S.W.A.T.; crede anche che ad uno così – in due ore – i servizi segreti, l’esercito ed il governo gli farebbero pelo e contropelo, trovandosi subito d’accordo su questo. Però, l’uomo comune si accontenta di vedere questo film, come un buon action movie dai ritmi alti, capace di fare schizzare l’adrenalina alle stelle, ma sapendo bene che il genere war movie meglio si addice a Ridley Scott, Brian De Palma o a Kathryn Bigelow, con i loro Black Hawk Down, Redacted e The Hurt Locker.
Ed infine, l’uomo comune si chiede anche cosa sia giusto e cosa sia sbagliato; se stia a noi che stiamo qui, decidere cosa sia giusto lì, anche perché, come dice un personaggio del film: «Pensate che la guerra sia finita solo perché siete a Baghdad? Ve ne accorgerete, siamo solo all’inizio».
Il trailer del film: watch?v=NUXsu6tOp60
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