Oh ragazzi, non son mica qui a criticare l’ideale di Unione Europea, per carità, chi sono io, un lettore della Padania? Anche il Sommo Poeta Dante Alighieri sognava che l’Europa fosse unificata sotto un unico imperium, e quando il buon vecchio Prodi ci fece pagare l’eurotassa, ho sborsato volentieri, pensavo che convenisse fare un sacrificio per avere una moneta un filino più valida della carta igienica usata. L’Unione mi piaceva anche perché avrebbe impedito le guerre tra i paesi europei, però non sapevo che sarebbe diventata una scusa per combattere tutti insieme le guerre che le corporation USA scatenavano nei vari angoli del mondo in cui dovevano difendere i loro interessi. In ogni modo, l’idea è buona e giusta, tutto sta nel cosa si unisce e contro chi. Il mio problema è che sono cascata dalla parte sbagliata dell’Unione.
Alla fine del 2001, ultimo anno della lira, tutti i negozi svendevano “per rinnovo locali”. Il mio stipendio era ancora decente e ne ho approfittato per togliermi un po’ di voglie; meno male che porto ancora la stessa taglia, sono state le ultime. Il primo gennaio 2002 ho capito che esistevano due tassi di cambio: quello teorico, col quale era stata convertita la mia busta paga, un euro uguale a poco meno di duemila lire, e quello reale, che vedevo nelle vetrine con i nuovi prezzi, misteriosamente già pronte la mattina di Capodanno. Un paio di jeans da centomila lire costava cento euro. Un raddoppio nel cuore della notte. Cazzo, che culo, mi venne da pensare. La mattina del due sono andata in banca, sperando che lo stesso miracolo fosse capitato anche al mio conto corrente, e invece no, che sfiga. Quei miserabili cinque milioni che avevo da parte non avevano proprio capito niente, non erano diventati cinque mila euro, ma la metà. Quando arrivò lo stipendio, il mio vecchio milione e otto, con cui campavo discretamente e mi concedevo pure qualche sfizio, si era ridotto a poco più di novecento euro. Possibile che a me toccasse sempre il cambio sbagliato?
Eppure andavo dalla parrucchiera e le ottantamila lire per fare il colore e le mèches erano diventate ottanta euro. Ma come cacchio aveva fatto lei a farsi dare il cambio buono? Questione di culo, ho pensato. Sulla fine che ha fatto il mio stipendio convertito col cambio cattivo, caliamo un pietoso telo, un velo non basta. In dieci anni i novecento euro sono cresciuti proprio di poco, dopo lunghe e penose malattie hanno fatto il grande salto e sono riusciti a superare i mille, però basta un inverno un po’ freddo e devo scegliere tra la bolletta del gas e la spesa in un discount con le mozzarelle blu. Intanto la parrucchiera si è comprata l’Audi TT e un bellissimo ragazzo albanese che ha la metà dei suoi anni. Visto cosa succede ad azzeccare il tasso di cambio?
Pazienza, questi son solo soldi e dicono che i soldi non fanno la felicità, anche se un po’ aiutano. Ho sofferto di più quando ho capito che ero capitata dalla parte sbagliata dell’Unione anche per quanto riguardava i diritti e i doveri. Hanno cominciato con le direttive della Corte europea: non appena qualcuno ha capito che in Italia si violava la parità tra uomini e donne, mica hanno deciso che anche le donne italiane avevano il diritto all’aiuto dello Stato per l’assistenza ai bambini e agli anziani. No, l’unica disparità che a questi signori è saltata all’occhio è che in Italia le donne andavano in pensione prima degli uomini, e allora, fuori di galera a sessantacinque anni anche noi, con buona pace delle nonne che crescono i nipoti perché le mamme non hanno altro posto dove appoggiarli, e delle stesse mamme che devono pagare la badante per la nonna quando non ce la fa più, perché se hanno ancora un lavoro non è proprio il caso di perderlo. Naturalmente l’Italia si è affrettata a ubbidire alla direttiva a stretto giro di posta, e che diamine, mica vogliamo pagare una multa per colpa delle donne! Però… forse mi sbaglio, ma ricordo una direttiva europea che condannava un certo miliardario italiano, casualmente anche capo del governo, a spostare una delle sue televisioni private sul satellite, a pena di una multa. A me non risulta che questa direttiva sia stata rispettata, e ho il sospetto che la multa gliel’abbiamo pagata noi. Ma forse mi sbaglio…
Rimanendo sul dolente tasto delle pensioni, quando io sono entrata nell’allegro mondo del lavoro si usciva di galera dopo trentacinque anni di contributi versati. Adesso quarant’anni non bastano più, lo dice l’Europa e lo dicono i mercati. Ci spiegano che in Germania prima dei settant’anni nessuno prende la pensione, ma io sono una persona semplice e limitata e non capisco. Se i giovani tedeschi cazzeggiano e fanno viaggi d’istruzione fino a trent’anni, la cosa ha pure un senso, ma in Germania non hanno qualche disgraziato che ha cominciato a lavorare a quindici anni, o a diciotto? Con quelli cosa ci fanno? Hanno per caso riaperto i cancelli di quell’ameno luogo di villeggiatura la cui insegna era “Arbeit Macht Frei”? Li gasano? Ci fanno il sapone? Li mandano sulle impalcature sperando che cadano?
In nome di questi benedetti mercati, e di questa signora Europa, in dieci anni abbiamo perso quasi tutti i diritti che i nostri nonni, i nostri padri e anche noi, fino agli anni Settanta, ci eravamo conquistati letteralmente col sangue, il sudore e le lacrime. Qualcuno si ricorda della Settimana Rossa, dei Morti di Reggio Emilia, delle cariche dei celerini? Quasi nessuno, credo, come tra un po’ nessuno si ricorderà dello Statuto dei Lavoratori. Per forza, i lavoratori stanno sparendo e sono sostituiti dai co.co.co., co.co.pro., somministrati, partite IVA, stagisti, insomma, schiavi chiamati con un eufemismo. Sono sempre l’Europa e i mercati che vogliono la flessibilità. Spero che questi signori Europa e Mercati non vogliano reintrodurre anche lo jus primae noctis, altrimenti per l’ingorgo dei pullman ad Arcore bisognerà far intervenire i Caschi Blu. D’altra parte anche i sindacati dicono che bisogna modernizzarsi, a parte qualche sacca di anticaglia come la FIOM che non ha ancora capito di essere un dinosauro e non si decide a estinguersi, pertanto invitano i lavoratori, o meglio quei pochi che hanno ancora uno straccio di lavoro, a disporsi volontariamente a novanta gradi e portarsi la vaselina da casa, così si risparmia tempo e si guadagna in efficienza.
Solo una piccola chicca finale: l’abolizione delle feste civili. Perché, guarda caso, sono proprio quelle che stanno sul gozzo al satrapo di Hardcore, oppure, dicono, perché fanno così in tutta Europa, ci siamo rimasti solo noi così retrogradi da ostinarci a festeggiare ricorrenze ridicole come la Festa del Lavoro, la Liberazione dal nazifascismo, la nascita della Repubblica. Le spostiamo alla domenica successiva e facciamo felice la Marcegaglia, povera donna, così derelitta che non può permettersi nemmeno una brava parrucchiera, le consiglierei la mia, magari le fa anche fare un giro con l’albanese di ventitré anni. Però a me risulta che ogni quattordici luglio i Francesi festeggiano la Presa della Bastiglia, anche se non cade di domenica. Che il primo maggio, festa del Lavoro, è festeggiato in tutto il mondo proprio il primo maggio, con eccezione di alcuni paesi dittatoriali, e forse non è un caso che anche noi ci stiamo adeguando. Pure in Germania lo festeggiano, e in tutte le regioni: si chiama Tag der Arbeit (Giornata del Lavoro). E provate a togliere il quattro luglio in USA…
Ah, tanto per completare: mi risulta che nel resto dell’Europa, o almeno nei paesi che possono permettersi di dettare legge agli altri poveracci con le pezze al culo, le tasse non le paghino solo i lavoratori dipendenti e i pensionati, ma anche gli artigiani e i liberi professionisti. Però su questo delicato tasto non sento premere molto spesso la nota del “lo vuole l’Europa e lo vogliono i mercati”. Di nuovo, sono capitata dalla parte sbagliata dell’Unione.
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