Death penalty, canzone di una adolescente sognatrice

no alla pena di morte

Ho sempre amato scrivere. Sin da piccola come è accaduto a molti tenevo un diario in cui riversavo le mie angosce senza crearmi grossi problemi. Era la cosa più naturale del mondo, come respirare. Più la delusione o l’amarezza erano grandi più mi psicanalizzavo con carta e penna.

Mai tastiera e monitor.

La tecnologia ho sempre pensato mettesse un filtro tra la parte più vera di me e l’idea che mi ero fatta di me stessa. Dunque, rischiavo di creare una storia che mi si addicesse piuttosto che raccontare i fatti.
Ho scritto di tutto. Dico sul serio. Nulla mi ha mai bloccata, nulla mi ha mai fatto venire il panico come, invece, accade oggi.

L’idea di esprimermi sulla pena di morte, dire la mia su un argomento così delicato, difficile da gestire, su cui tutti si esprimono spesso senza cognizione di causa, lascia senza parole persino una dalla lingua lunga come me.

Ecco perché posso solo raccontarvi la mia amarezza tramite un aneddoto che si riferisce ai tempi dei diari, dei sogni, della mia adolescenza insomma.
Ebbene, l’ho già detto: io scrivevo sempre. Tra mille idee buttate giù anche testi di canzoni che non avrei dovuto neanche cantare, ma che avrebbero dovuto semplicemente esistere pur rimanendo nel cassetto dei miei ricordi più dolci.

Avevo sedici anni quando scrissi “Death Penalty”, incisa per gioco su un nastro old style che tuttora conservo gelosamente.

“Sguardi intensi che ci guardano, occhi fissi verso il sole. Verso un sole che fa male verso il sole dentro noi..”

Nel mio testo certamente banale, mi immedesimavo in chi quel sole dentro non l’avrebbe più avuto. Immaginavo l’ultimo sguardo rivoltomi da un condannato che presupponevo innocente senza capire il perché ritenessi tale il protagonista della mia storia. Nella mia mente di adolescente sembrava non volessi accettare l’idea che talvolta l’essere umano è cattivo, fermo restando che persino i cattivi soffrono quando sanno che non ci sarà più sole per loro.

Non sapevo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, come oggi del resto a più di dieci anni di distanza. So solo che quando hai sedici anni non hai la concezione dell’errore né della punizione.

Vivi anelando quel sole. Vivi e basta e pensi che per tutti gli altri, anche gli adulti, sia così.

E invece no.

La violenza è dilagante così come la ricerca di una verità assoluta, di una giustizia che sempre meno spesso è giusta. Pilotata. Diretta verso questa o quell’altra direzione a favore di questo o quell’altro individuo.
E sentivo, lo ricordo ancora, passi di uomini verso la sedia elettrica o l’impiccagione così come oggi sento anche passi di donne trascinate verso la lapidazione spesso senza una ragione reale.

A quei tempi credevo bastasse una canzone a rendere le cose migliori. Pensavo fosse sufficiente per avere un mondo senza violenza.
E rimango miseramente a guardare, dono due euro con il mio cellulare e penso di aver fatto la mia parte.

Cosa dovrei fare di più?
Me lo chiedo e non mi do risposta.

In realtà il mio disprezzo verso pratiche così diffuse in tutto il mondo è pressoché totale. Difficile accettare di rispondere all’orrore con l’orrore. So che però se mi metto nei panni di un familiare di una vittima non riesco a biasimare il pensiero di vendetta ad ogni costo. Chiunque, credo, nella piena lucidità può solo detestare l’idea della pena di morte come risposta al male ricevuto ma se avvolto dal dolore, da parte in causa, difficile riesca a far proprio il precetto del “porgi l’altra guancia” e del perdono totale.

In un momento storico così delicato, dunque, tutto è amplificato e tutto spesso è politicizzato senza dare realmente peso alla questione centrale: uccidere un uomo perché ha ucciso un altro uomo può ritenersi giustizia? Può dare sollievo?

Ed eccoci a toccare quelli che per me sono punti focali: la giustizia sempre meno giusta e la cultura sempre meno colta. Se la prima fosse garantita, se la certezza della pena fosse appunto una certezza, in pochi ricorrerebbero alla violenza. Non ce ne sarebbe bisogno, perché il dolore potrebbe trovare pace sebbene parziale. E invece viviamo nel mondo dove tutto è possibile, dove lo slogan “Yes we can” che propose Barak Obama durante la campagna elettorale degli Stati Uniti, qualcuno l’ha scambiato in una giustificazione più che in una speranza.

Dunque si può uccidere, seminare il panico, stuprare e commettere ogni genere di nefandezza senza che lo Stato, gli Stati, intervengano e la magistratura applichi le leggi senza attenuanti generiche e buona condotta.

Mi chiedo: può davvero un killer seriale pentirsi?

Forse, ma non sta all’uomo di legge concedere attenuanti. L’uomo, il giudice, il servitore dello Stato, dovrebbe rispettare la vittima prima di ogni altra cosa.

L’ignoranza poi è la causa di assurde mortificazioni soprattutto in Paesi dove il credo religioso è più un boa costrictor che non un valore di carità e amore. Donne punite con la morte per aver amato o solo per avere dato seguito all’urlo della dignità. Vergogne che da un capo all’altro del mondo non si risparmiano, vergogne che è impossibile accettare o solo tentare di capire.

Ma purtroppo non bastano le parole a fermare questo scempio né i famosi due euro via sms o cinque euro da rete fissa. Servirebbe una buona macchina da corsa, la cultura, un buon pilota, governatori giusti, e pneumatici stabili, la pietà del cuore di ogni essere umano. Peccato che al momento siamo in monopattino, lontani anni luce dal sole della canzone di un’adolescente di tanti anni fa.

One Reply to “Death penalty, canzone di una adolescente sognatrice”

  1. E’ proprio vero… il dolore che una persona prova per la perdita di una figlia, un figlio, un genitore, un amico, una persona cara, per colpa di un pazzo ubriaco che sfreccia con la sua auto per strada, o per colpa di un fidanzato geloso o di un ex fidanzato che non riesce a farsene una ragione, o per colpa di un familiare che in un determinato momento (anche se non credo ai facili raptus di follia) è capace di uccidere, stuprare, e chissà cos’altro, è accecante… ti viene quella voglia matta di farti giustizia da solo perchè purtroppo, com’è scritto nell’articolo, “la giustizia non è giusta”, non aiuta, anzi… a volte “sembra” aiutare chi li compie questi reati… ma sarebbe poi la cosa giusta? non credo… sono d’accordo con la sig.ra Caruso quando dice che ciò che servirebbe è unicamente la certezza della pena… queste “persone” devono sapere che nn se la caveranno con 5 o 6 anni di carcere, devono sapere che andranno incontro ad una pena adeguata… (il termine “adeguata” per noi che non siamo “addetti ai lavori” potrebbe voler dire anche chiuderle in cella e buttare via la chiave…)… speriamo la situazione migliori presto…

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