Sta suonando la sveglia: è la solita ora, le cinque e un quarto del mattino. Anche se da molti anni sono costretta a queste levatacce, non riesco ad abituarmi, non ce la farò mai, ma non ho scelta. Accendo la luce sul comodino e ingoio la dose di antidepressivi e ansiolitici che ormai mi sostiene (o tenta di sostenermi) fin da quando entrai nel “magico” mondo del lavoro, e ancora non sapevo fino a che punto sarebbe diventata dura.
Preparo la colazione alla gatta, non la vedrò fino a notte. Le undici, mezzanotte, sono ormai diventate l’ora abituale del rientro dal capannone dei miei padroni: per fortuna sono troppo vecchia per suscitare velleità erotiche in qualcuno di loro, e non mi viene chiesto di andarci anche a letto. Chiesto, ovviamente, non imposto, perché, come dicono loro, l’alternativa c’è sempre, il licenziamento in tronco senza indennizzo. Questa raccapricciante prospettiva non si presenta più, per fortuna, e sono i momenti in cui gioisco della mia panciona e dei miei squallidi seni rinsecchiti e cadenti, dei capelli grigi che incorniciano un volto avvizzito e sfiorano le spalle curve. Grazie al cielo non faccio più gola a nessuno, né tra i padroni né tra i loro scagnozzi.
Cerco di mangiare qualcosa, ma vomito quasi subito. In tanti anni, non ho ancora imparato ad assorbire la tensione e a sciogliere il nodo che mi attanaglia lo stomaco all’inizio della giornata. Mi preoccupo della mia gattina, che abbia cibo a sufficienza e acqua fresca, e lascio aperta una finestra che le permetta di prendere un po’ d’aria, sperando che non sia usata come bersaglio in un’esercitazione di tiro o in uno scontro tra bande rivali. Senza di lei, sarei ancora più disperatamente sola, il mio compagno non c’è più, è stato deportato. La banca nella quale ha lavorato per trentacinque anni gli ha fatto una di quelle proposte che non si possono rifiutare: o il licenziamento, o un posto in un’agenzia del Piemonte. Ci vediamo, se va bene, qualche fine settimana in cui lo lasciano libero di tornare nella nostra città, e possiamo stare insieme se riesco a impietosire la kapò e farmi concedere un’ora o due di pausa dal grande ipermercato dove faccio la commessa.
Alla fine del secolo, del Novecento, il mio secolo, quello in cui sono stata giovane e non dico felice, ma con un briciolo di dignità umana, le prospettive erano raccapriccianti. Si stavano preparando leggi con le quali in pratica si reintroduceva la schiavitù, mascherata con nomi altisonanti. Flessibilità, liberismo, lavoro interinale, esperti linguistici sempre all’opera per coniare questi neologismi il cui unico significato era lavorare come schiavi, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni all’anno, per una paga miserabile, e licenziabili al primo colpo di tosse.
Nei primi anni del nuovo millennio, anche lo Stato si è adeguato alla nuova “way of life” e ha dato la possibilità ai dirigenti, divenuti ormai divinità sulla terra, di “applicare la flessibilità”. Io sono stata la prima a essere sbattuta fuori, e sono stata sostituita da una giovane ambiziosa che passa tutta la sua vita dentro il Palazzaccio, ben contenta di farsi sbattere a sua volta, ma a letto, da chiunque abbia un briciolo di potere. Possibilmente, previo passaggio da un ristorante alla moda, così è più romantico.
Per un po’ ho cercato di sopravvivere affittando il mio appartamentino, e dando qualche lezione privata in nero, ma gli ex colleghi mi hanno messo la Finanza alle calcagna, che, per pagare la multa, si è presa la mia casa. Vivo col mio compagno, ma sono praticamente sola, perché a lui hanno fatto il culo ancora prima di me. Con le varie fusioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, la banca ha potuto fare assolutamente tutto quello che voleva col personale, e con lui sono stati molto umani: come alternativa al licenziamento gli hanno offerto un posto in un’agenzia della bassa piemontese, in un paese dove secondo me è passato Cesare Pavese prima di suicidarsi, e anche Luigi Tenco. Ci sono solo capannoni industriali con annesse le baracche in cui vivono i negri, un centro commerciale con l’ipermercato come quello dove lavoro io per diciotto, diciannove ore al giorno, e le ville dei ricchi, blindatissime e accuratamente nascoste da folti boschi di abeti.
Ho visto quello squallido paese solo una volta, prima di essere assunta al supermercato, dopo no, perché non ho diritto alle ferie, né alla domenica libera. Con la nuova legge sul commercio, gli ipermercati sono aperti sempre, giorno e notte, come una volta i pronto-soccorsi, che in questa nuova era “del mercato libero” sono invece a disposizione del pubblico per due ore la mattina, dal lunedì al venerdì. Naturalmente, per tutte le altre necessità, ci sono gli ambulatori privati: più si paga, più si trova aperto, anche trenta ore al giorno.
Veramente ci spetterebbe una giornata libera alla settimana, e dovremmo lavorare “solo” otto ore al giorno, ma ci è stato chiarito subito, appena messo piede in questo capannone, che solo un pazzo avrebbe potuto avanzare pretese del genere, un pazzo candidato al licenziamento in tronco senza indennizzo. Si favoleggia anche che ci spetterebbero due settimane di “ferie” (strana e antiquata parola, non la si sente più usare, ci sono solo le vacanze premio concesse dalle aziende ai dipendenti più devoti) ma siamo tutti convinti che si tratti solo di una delle tante leggende metropolitane.
Le altre operaie sono quasi tutte giovani, cresciute in questo clima da vuoto pneumatico. Solo io e altre due donne abbiamo lavorato nel secolo scorso, e ricordiamo cose che per le fonti ufficiali di informazione sono favole, oppure ingiustizie, illegalità, abusi e scandali, giustamente soppressi dai nuovi governi, in nome della Modernità. Così capita che le nostre giovani colleghe pensino che le stiamo prendendo in giro, quando raccontiamo cose del passato, e ridono a crepapelle. Ogni tanto, nella pausa pranzo, quando ci permettono di fermarci dieci minuti dietro gli scaffali a mangiare la merce andata a male, se non ci sono orecchie di capetti in circolazione, l’ex insegnante, l’ex bancaria e l’ex impiegata statale favoleggiano di un mondo che non esiste più, e che secondo le ragazze non è mai esistito. Raccontiamo di periodi di libertà che duravano anche un mese, o due, per la nostra amica ex insegnante, di viaggi in paesi lontani, e io le sconvolgo con la storia dei miei sei mesi di aspettativa: non era retribuita, ma al ritorno il mio posto di lavoro era ancora lì… Raccontiamo alle giovani dei paesi in cui siamo state in quei viaggi, ma ci accorgiamo che non ci credono, che sorridono e ci prendono un po’ in giro. Pensano che siano favole, inventate per abbellire le nostre vite da vecchie.
Tempo fa ho notato una ragazzina che mi stava a sentire con un’attenzione particolare, e mi faceva un sacco di domande, specialmente su quello che noi anziane chiamiamo “orario di lavoro”, o sui tempi in cui non si lavorava di sabato e di domenica. Diceva di credermi, perché i suoi genitori le avevano raccontato qualcosa del genere, e ricordava che da piccola la portavano anche al mare. Così mi sono lasciata andare, ho rievocato gli anni in cui quelle due giornate erano la mia boccata di ossigeno, e non sapevo come avrei fatto a sopravvivere senza di esse. Di quando ero ragazza, e con le amiche andavo al mare, in spiaggia e in discoteca, di quando passavo il weekend a casa di amici, o del periodo in cui io e il mio compagno potevamo ancora vivere insieme e dedicavamo il sabato e la domenica alla bicicletta e alla spiaggia, oppure alla lettura e al riposo.
La giovane collega rimaneva a bocca aperta per queste meraviglie che le raccontavo. Quasi le uscirono gli occhi dalle orbite a sentire del mio antico “orario di lavoro”, delle otto ore di sonno… Adesso non è possibile dormire più di quattro ore: alle sei dobbiamo essere in servizio, vuol dire alzarsi alle cinque, e prima delle undici di sera è impossibile essere a casa. Spesso a mezzanotte.
Un giorno, invece della giovane collega, arrivò suo padre, che non era, come mi aveva detto lei, un nostalgico che amava rievocare il passato, ma il capo del personale. Mi fece una scena orrenda, minacciandomi come al solito di licenziamento in tronco senza indennizzo, poi decise di mostrarsi magnanimo: poteva mandarmi a lavorare in un altro magazzino della ditta, in Abruzzo, e sapendo che non mi potevo permettere un affitto e che continuavo a vivere nella casa del mio compagno, dove ogni tanto lui, per qualche fortunata coincidenza, riusciva a tornare, mi offrì generosamente anche l’alloggio, una stanzetta dentro al magazzino stesso, in cambio della pulizia dei locali. Però ci tenne a precisare: niente gatti, è una questione di igiene, e quell’uomo che non è suo marito poi… sa, è per l’immagine…
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