Metti una notte al pronto soccorso…

ospedale

“Tu ti lamenti ma che ti lamenti? Pigghia nu bastune e tira fora li denti…” .

Sapeste quante volte questo ritornello mi è venuto in mente, qualche giorno fa, mentre mi trovavo in veste di “accompagnatrice” in un ospedale della Calabria.

Che sia chiaro, non sto qui a scrivere peste e corna solo dei nosocomi della mia Regione, perché a quanto pare altrove non stanno meglio, ma i miei occhi hanno visto, le mie orecchie sentito e, dunque, la mia bocca racconta con l’ausilio di un bel pc e tanta tanta indignazione.

Il caso ha voluto che fossi io l’altro pomeriggio a dover soccorrere un’amica cardiopatica in preda a un problema neurologico. Sin dal primo istante era evidente come il botox di Alba Parietti, che la paziente andava immediatamente sottoposta a una tac. Non sono un medico né voglio sostituirmi alle competenze che dovrebbero avere loro, ma mi chiedo: è normale lasciare ad ammuffire gli ammalati in un fatiscente corridoio buttandoli alla meno peggio su qualche sedia “sgarrupata” qua e là senza il minimo intervento?

La mia amica, che ripeto è cardiopatica ed evidenziava un serio problema a livello neurologico, ha atteso in quel corridoio con porte cigolanti, schiamazzi e pulizie ai limiti della stalla per ore prima di vedersi prestare soccorso (questa sì che è una parola grossa visto che persino la pressione gliel’hanno misurata nel mitico corridoio tinteggiato di celeste con scrostatura verdognola).

Accanto a lei c’era una ragazza della mia età che piangeva a causa di un non meglio identificato problema allo stomaco.

Intervenire?

Giammai!

Ma la cosa peggiore non è neanche il mancato soccorso al pronto soccorso (che gioco di parole tremendo!) perché i medici hanno le loro ragioni visti i posti decimati degli ultimi mesi e il sovraffollamento della struttura a causa degli inutili accorpamenti dei nosocomi locali (viva i politicanti).

A farmi girare nella testa il già citato ritornello, infatti, è stato l’atteggiamento di alcuni operatori sanitari. Su tutti il “pitbull” in gonnella con la tinta di Moira Orfei (lucida come il lucido di scarpe) che, forse dall’alto delle sue gratificazioni economiche e familiari, stava lì a cazziare tutto il tempo.

Bene, passi per le cazziate ai parenti invasivi. Passi anche per la confusione che inevitabilmente in una corsia ospedaliera si crea, ma non passi per l’atteggiamento maleducato nei confronti del malato. Forse perché troppo presa a raccontare le gesta della figlioletta di 6 anni definita un genio perché sa navigare in internet e scarica schede su schede con il telefonino di Hello Kitty debitamente acquistato dalla cara mammina, era troppo per lei dare spazio agli ammalati e velocizzare i già difficili lavori. Con una mano misurava i battiti cardiaci (nel corridoio ovviamente e senza la minima privacy) e con l’altra rispondeva sempre alla dolce figlioletta con voce soave, salvo alterarla appena la madre della ragazza di cui sopra (sempre più contorta nella sua crisi di dolore) osava chiedere di intervenire.

Chiaro che la bimba non c’entra nulla, ma alla signora e a chi come lei vorrei dire che fare il medico, l’infermiere o il portantino non è fare la manicure (e anche lì se stai lavorando il cellulare lo spegni!).

La mia amica in tutto questo continuava ad aver bisogno di una tac mentre io, accompagnatrice impunita, sono stata silurata fuori dai cosiddetti perché, forse, occhi indiscreti avrebbero impedito al “pitbull” lo sproloquio circa le gesta eroiche della piccola di casa.

E dunque, mentre aspettavo che qualcuno facesse il proprio lavoro piuttosto che fare l’urlatrice, giravo nella sala d’attesa della sala d’attesa (che paradosso se si pensa che manco ci sono le sale per le visite e le degenze!). In quelle ore in cui sbirciavo furtivamente preoccupata che la mia amica rantolasse a terra da un momento all’altro, però, ho imparato quello che neanche i miei genitori sono riusciti a insegnarmi.

L’ospedale era tappezzato di una scritta che suonava più o meno così: “Ti sei lavata le mani tesoro?”
A quel punto un po’ incredula e un po’ incuriosita mi sono messa a leggere (tanto ho pensato “ha da passà ‘a nuttata!) :
1. Premere il tubetto del sapone (e già questo bastava per dargliene tante ma tante…)
2. Mettere il sapone sulle mani e frizionare (ma no!)

Ovviamente non vi tedierò con tutto il procedimento correlato di immagini ad hoc, perché ritengo che anche voi come è capitato a me (di rado eh) vi sia successo di lavarvi le mani.

Ecco appunto!

Fine della storia sapevo come frizionare e non prendere l’influenza grazie al perfetto lava lava degli arti superiori.
Intanto fuori era sempre più buio ed io non avevo notizie della mia amica. Chiedi di qua chiedi di là ero sempre “rimandata a settembre” quasi con la frase da casting “le faremo sapere!”.

E qui mi è venuta in mente un’altra frase ma stavolta di un celebre film, “Io speriamo che me la cavo…”, dove persino il compito insegnante del Nord (Paolo Villaggio) stanco delle rispostacce, seguì il suggerimento del bambino terribile prendendo la superba suora per il collo “Brutta cape ‘e pezza!”…mmm…

Che sia chiaro nonostante i miei trascorsi da boxeuse non sono esattamente un tipo violento, ma ditemi che cosa avreste pensato voi?
Alla fine della fiera la tac è arrivata… dopo ore di anticamera e quasi a notte fonda. La mia amica è tornata a casa (non c’erano posti letto) ed io oltre a saper frizionare alla perfezione le mie manine sante, ho capito che se mi si presenta qualche altra persona dicendomi che il film di Antonio Albanese, “Qualunquemente”, è irrispettoso nei confronti della Calabria giuro che… glielo dico…

Mio malgrado, di Cetto Laqualunque dalle mie parti ce ne sono a iosa e forse lo sono proprio coloro che ricordano di essere calabresi solo in occasione della sagra del peperoncino e in occasione di una pellicola cinematografica, dimenticandosene immediatamente dopo appena si adagiano nelle culle d’oro costruite da altri ma comodissime per i loro fondoschiena.

Eh già, perché a parole sono tutti calabresi (ma immagino questo valga anche per diverse regioni d’Italia) ma poi quando c’è da cambiarla questa Terra si preferiscono altri lidi… vedi i lustrini di Porto Cervo o le serate a suon di coca cola light a villa Certosa.

 


 

Si ringrazia per l’editing Valentina Salvadori

One Reply to “Metti una notte al pronto soccorso…”

  1. …devo dire che questa esperienza non mi stupisce per niente… anzi… probabilmente mi avrebbe stupita il contrario… l’essere trattata bene e con professionalità… è una cosa brutta lo so… direi orrenda… ma è la nostraa realtà purtroppo…

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