Scrivere sulla pena di morte non è cosa semplice, in primo luogo perché si tende a ripetere ciò che già altri hanno detto, ed inoltre si corre il rischio di essere banali e prevedibili.
È difficile anche perché include aspetti privati come il dolore, il credo religioso, ma anche aspetti più generali e di principio come i diritti umani.
Allora mi chiedo, facendo appello ai sentimenti e alle emozioni, se mia figlia venisse stuprata, torturata e poi uccisa, quale sarebbe la mia reazione nei confronti del suo carnefice? Sarei disposto ad accettare una pena di venti o trent’anni, per poi vedere che, grazie a qualche sconto di pena, il mostro sarebbe di nuovo a casa vivendo la sua vita o ciò che ne resta? Come mi sentirei sapendo che quest’uomo si sta preparando un caffè mentre mia faglia è ormai solo ossa e non ha potuto vivere nulla della sua vita?
Allo stesso tempo però mi chiedo e vi chiedo se sia giusto scegliere o giudicare basandoci esclusivamente sui sentimenti e sulle emozioni. Sicuramente no, altrimenti sarebbero giustificate le azioni più deplorevoli solo perché sentiamo che sia giusto. Quindi non possiamo metterci nei panni di chi ha subito il torto per decidere se la pena di morte sia giusta o sbagliata, è chiaro che dobbiamo allontanarci emotivamente per provare a comprendere la direzione da prendere.
Allora possiamo interrogarci su quale sia lo scopo della pena di morte in quanto punizione. Una sanzione ha diversi significati, pedagogicamente parlando essa è inflitta per educare e quindi scoraggiare il ripetersi di un comportamento errato. Se nostro figlio si comporta male, noi lo sgridiamo, gli togliamo la paghetta, gli sequestriamo la Playstation e, a seconda del malfatto, proporzioniamo una pena per fargli comprendere che quel comportamento non è giusto e che quindi ora ne paga le conseguenze con la speranza (ecco il lato pedagogico) che in futuro non ripeta il medesimo errore. In virtù di questo, mi chiedo, la pena di morte può essere annoverata tra i rimedi pedagogici? La risposta che ci viene naturalmente da dare è no, ma in realtà potrebbe anche essere un sì se s’introduce una terza variante: il condannato viene soppresso in nome di un’educazione collettiva, nel senso che ne ammazzo uno per educarne tanti.
C’è da capire, di conseguenza a questa riflessione, se davvero la pena di morte sia un deterrente utile contro quei reati efferati per i quali è prevista. Gli Stati Uniti sono il paese civile che più fa uso di questo dissuasivo e, nonostante il crescente numero di casi d’innocenti condannati a morte, si assiste comunque al crescere della fiducia da parte del popolo statunitense verso la pena di morte come deterrente. Partendo dal presupposto di Van Den Haag, che si basa sul fatto che anche l’uccisione d’innocenti è giustificata dal fatto che la paura per la pena comunque salva altre potenziali vittime, la Corte Suprema Americana si è espressa in questo modo: La pena di morte serve a due principali scopi sociali, la retribuzione e la deterrenza (per i delitti capitali) nei confronti dei possibili criminali [Gregg contro Georgia 1976 (Hodginson 1996c-38)].
Siamo sicuri che sia davvero un deterrente? Negli ultimi venticinque anni sono state eseguite una serie di analisi statistiche molto meticolose, sono stati analizzati i dati sia degli Stati americani che hanno abolito la pena di morte, sia per quelli che l’hanno nuovamente introdotta, oltre naturalmente a quelli dove c’è sempre stata. Si sono perfino analizzati gli andamenti degli omicidi quando si è data notevole visibilità alle esecuzioni capitali (Gilmore o Spenkelnik), ma in ogni caso non si è riusciti a trovare un dato statistico che giustificasse questo attaccamento al significato deterrente della pena di morte; nemmeno nello Stato del Texas ovvero lo Stato con il maggior numero di esecuzioni capitali all’anno (circa trecento) [Sorensen/Wrinkle 1999].
A questo punto pare di capire che la pena di morte non abbia senso né come significato educativo (poiché chi sbaglia muore) né come deterrente per il resto della popolazione criminale, considerati i risultati delle indagini. C’è inoltre un altro grave aspetto da prendere in considerazione: la fallacità del sistema giudiziario.
Ronald Kitchen: «Il 7 luglio scorso (2011), un giudice mi ha ridato la libertà dopo 21 anni di carcere in Illinois. Ho passato tredici anni nel braccio della morte per colpa di una soffiata falsa e di una mia confessione firmata dopo 39 ore di tortura da parte della polizia.»
Curtis McCarty: «Lo Stato dell’Oklahoma mi ha condannato ingiustamente a morire. Sono rimasto in prigione per 22 anni. Nessuno mi ha risarcito o chiesto perdono.»
Greg Wilhoit: «Vengo da Sacramento, in California. Sono stato per cinque anni nel braccio della morte. Sono felice di essere qui, oggi.»
Nei soli Stati Uniti d’America ben 139 persone <guarda l’elenco>, condannate a morte, sono risultate innocenti, eppure questi errori, nell’opinione pubblica americana, sono considerati come un danno collaterale della lotta contro il crimine!
Ecco quindi che se anche fossimo convinti che la pena di morte sia una cosa giusta, non potremmo avere la certezza che il condannato sia davvero colpevole e questo da solo dovrebbe bastare per fermare questa inutile crudeltà. D’altro canto non si analizza un aspetto che dovrebbe essere ovvio; la deterrenza si basa su un concetto semplice: non commetto il reato perché ho paura della conseguenza letale. Ciò presuppone che il colpevole sia perfettamente razionale nel momento in cui commette il reato, quindi non è ottenebrato né dall’alcool né dalla droga, né dall’ira né dalla gelosia; per coloro che invece preparano razionalmente un omicidio, di solito sono sicuri di commettere il delitto perfetto e, di conseguenza, non si pongono il problema di essere scoperti e giustiziati.
A questo punto sovviene il fondato sospetto che la pena di morte vista come deterrente non sia altro che una scusa intellettualmente valida per giustificare la propria sete di vendetta e di sangue.
Interessante la riflessione di Cesare Beccaria (1738-1794, filosofo, giurista, economista) che fu tra i primi a giudicare il delitto da un punto di vista laico ovvero come violazione del contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui ed a garantire l’ordine. Secondo questo contratto nessun uomo può disporre della vita di un altro, così come lo Stato non può commettere un omicidio per punire un omicida:
«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.» [Dei delitti e delle pene (cap. XXVIII), Cesare Beccaria].
Una data importante, su iniziativa tutta italiana, è stata il 18 Dicembre 2007 quando l’Onu ha approvato una storica risoluzione sulla moratoria universale della pena di morte ovvero una sospensione internazionale delle pene capitali. La moratoria è un’azione meno “aggressiva” sull’autorità degli Stati sovrani poiché non obbliga un cambiamento radicale della costituzione, ma una semplice sospensione dell’applicazione della pena di morte. Il 18 Dicembre 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ratificato 104 voti a favore della moratoria, 54 contrari e 29 astenuti <puoi vedere la lista facendo clic qui>.
Il tema sulla pena di morte è vasto e di sicuro questo articolo non ha pretese di esaustività, vuole solo chiarire qualche dubbio e soprattutto fornire spunti di riflessione, proprio per questo chiudo con una nota di Lev Tolstoj: «Trent’anni fa ho visto a Parigi decapitare un uomo con la ghigliottina, in presenza di migliaia di spettatori. Sapevo che si trattava di un pericoloso malfattore; conoscevo tutti i ragionamenti che gli uomini hanno messo per iscritto nel corso di tanti secoli per giustificare azioni di questo genere; sapevo che tutto veniva compiuto consapevolmente, razionalmente; ma nel momento in cui la testa e il corpo si separarono e caddero diedi un grido e compresi, non con la mente, non con il cuore, ma con tutto il mio essere, che quelle razionalizzazioni che avevo sentito a proposito della pena di morte erano solo funesti spropositi e che, per quanto grande possa essere il numero delle persone riunite per commettere un assassinio e qualsiasi nome esse si diano, l’assassinio è il peccato più grave del mondo, e che davanti ai miei occhi veniva compiuto proprio questo peccato.»
Di seguito un elenco parziale di libri che trattano della pena di morte:
- Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764)
- L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo (1829)
- Confessione di Lev Tolstoj (1882)
- Nella colonia penale di Franz Kafka (1919)
- Il processo di Franz Kafka (1925)
- Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (1952)
- Porte aperte di Leonardo Sciascia (1987)
- La morte come pena di Italo Mereu (1982)
- La Penna di Donney – Miracolo d’amore di Ruggero Pegna (2005)
Fonti consultate:
- Wikipedia Italia
- La pena di morte è un deterrente?, Claudio Giusti
Si ringrazia per l’editing Maryan Mazzella
- Giorgia chi? (primi tre giorni) - 12 Maggio 2014
- “Senza nome”, una bella lettura: consigliato! - 2 Aprile 2013
- Canapa di Raffaele Abbate - 18 Novembre 2012