di Elisa Scaringi
Il caso Spotlight è un film che racconta una storia (l’abuso su minori di preti pedofili). Ma propone anche un metodo di indagine (quello del giornalismo anglosassone). E il risultato è eccellente (non a caso la pellicola è stata candidata a sei premi Oscar).
Spotlight (letteralmente “attenzione pubblica”, “ribalta”) è un gruppo di quattro giornalisti “dedicati” dal Boston Globe alla realizzazione di inchieste dal lungo respiro. Due mesi in media (e anche di più) riservati alla ricerca giornalistica. E pezzi di inchiesta molto approfonditi, dallo stile tipicamente anglosassone, realizzati dopo aver raccolto documenti ufficiali, voci delle vittime e diretti interessati.
Una bella lezione di giornalismo quindi, soprattutto per noi italiani, lontanissimi dal metodo investigativo. Abituati a notizie velocissime, che nulla hanno dell’approfondimento, Il caso Spotlight ci impone (con piacere) la lentezza della ricerca. Vengono ascoltate le vittime degli abusi da parte dei preti pedofili, vengono raccolti i documenti ufficiali per ricostruire gli eventi in maniera oggettiva, vengono sentiti anche gli accusati dello scandalo.
Il bello del film sta dunque in questo: il racconto di un fatto inquietante (l’enorme mole di casi di pedofilia imputabili a preti cattolici) attraverso un metodo non filmico, ma giornalistico. Non c’è un protagonista, un cattivo o una vittima. E nemmeno un evento scatenante che ribalta il racconto. Ci sono solamente quattro giornalisti che lavorano sodo, e scavano a fondo in una storia. La ricerca, infatti, non sta nel chiuso di una stanza o nel mondo virtuale di internet, ma viene realizzata con strumenti ormai sconosciuti (anche ai giornalisti): una penna, un taccuino, un telefono, e la voce dei diretti interessati.
Insomma, Il caso Spotlight insegna una nuova via (in realtà molto antica) per la ricerca giornalistica (italiana). Una strada fatta di approfondimento, sensibilità, passione per il proprio lavoro e grande professionalità.
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