Prendi un uomo e togligli tutto: non solo la libertà, ma anche i suoi affetti, la sicurezza di potere vivere sino a domani, i vestiti, il suo lavoro, le idee in cui crede. A questo punto lo avrai reso vuoto, come il guscio di una crisalide dopo che la farfalla è volata via. Quest’uomo non deve più avere un nome, lui non sarà più qualcuno. Ma dovrai ancora controllarlo, inquadrarlo, inserirlo nei ranghi come una bestia in un recinto, come una bestia tra le altre. Per questo lo dovrai marchiare con un numero.
Immagina che quest’uomo, nella sua vita da farfalla, sia stato un clown, un artista, un imitatore. Immagina che abbia incontrato qualche anno prima l’uomo che sarebbe poi divenuto il carnefice della moglie e della figlia. Ecco, anche questo è stato il nazismo con il suo universo concentrazionario. Un mondo nel quale la vita della società si avvitava a spirale su se stessa, al punto tale che i percorsi iniziali potevano lambire e incrociare strade già percorse, confondersi con esse, creare situazioni intrecciate e casuali nelle quali un semplice conoscente poteva divenire il proprio personale aguzzino.
Adam Stein (Jeff Goldblum) è l’uomo più divertente della Germania, l’uomo che sapeva fare il verso di tutti gli animali – dovevate vederlo al circo a Berlino – un grande clown, la cui vita incrocia nuovamente quella del comandante Klein (Willem Dafoe), direttore – adesso – del campo di concentramento di Stellring nel 1944.
È qui che Adam Stein giunge con la sua famiglia su un treno di deportati. Avanti, Adam. Eri così bravo a fare ridere… Facci ridere.
«Una vita per una vita, la mia per la tua. Tu resti qui con me e mi fai ridere. Mi tieni la mente lontana dalle questioni esterne». «Mia moglie e le mie figlie…». «Vedremo. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Abbaia, Adam. A quattro zampe: è più buffo così». Ora immagina il cane che non è un cane, l’uomo che non è un uomo, avevano i visi esattamente così laggiù nei campi. Guance scavate, petti tubercolotici e, dentro le cavità scure, quegli occhi malati di paura, ma vivi…
Adam adesso vive in un istituto psichiatrico nel deserto israeliano del Negev, appositamente creato per la cura dei pazienti sopravvissuti ai campi di sterminio. Qui Adam si riappropria del suo ruolo di clown, ma è un gioco amaro nel quale convive con le follie che si annidano in angoli remoti della sua mente. Nell’istituto Adam è una sorta di leader, possiede qualità non comuni, si prende gioco del personale medico e sanitario del quale è convinto di dovere smascherare la follia, sfida la morte incombente e la combatte ad armi pari, come un uomo che cammina sul cornicione della vita senza guardare dabbasso.
Qui l’unica cosa bella è Gina Grey, una perla in un letamaio, sedotta dalla forte personalità dell’uomo che ha vissuto da cane per volontà del suo aguzzino sino alla liberazione del campo di Stellring. Con l’aiuto di Gina, Adam riuscirà a entrare nella stanza 285, dove un cane che non è un cane, un ragazzo che non è un ragazzo vive legato a una catena, ululando e giacendo tra i suoi escrementi.
Nessuna cura può funzionare, per questo ragazzo i cui arti si sono permanentemente adattati alla vita a quattro zampe. Ma Adam non può tollerare tutto questo, non può tollerare che rimanga cane, perché ogni cosa che abbia quattro zampe è un doloroso salto dentro il pozzo del suo dolore.
Adam è un clown, un attore, un imitatore. Lui sa come mescolare finzione e realtà, sogno e delirio, tristezza e risate, lacrime e gioie. Ma ha elaborato un percorso personale di guarigione nel quale nulla può essere risparmiato a se stesso: il ricordo non può essere ottenebrato perché, se nel campo di sterminio i deportati erano sopravvissuti fingendo di essere i fantasmi e le ombre di loro stessi, una volta liberati, i sopravvissuti avevano dovuto continuare a fingere che nulla fosse successo, per rientrare nei simulacri delle loro stesse vite.
«È un cane!». «No. È un ragazzo, un bambino: David!». Il percorso di guarigione inizia da un nome perché quelli che una volta erano stati uomini, erano diventati un numero impresso sul braccio e, uscendo dall’abisso, si erano dovuti riappropriare del proprio nome e delle loro vite monche, dei loro sogni spezzati, delle inutili realtà quotidiane. L’elaborazione di qualcosa che non è spiegabile comporta uno sforzo indicibile, le parole non bastano, i ragionamenti non possono venire in aiuto. Occorre qualcosa di più alto: una sublimazione, oppure una follia, perché nella spirale dell’universo concentrazionario gli estremi si toccano, così come l’agorà del deserto attorno alla struttura rimanda di continuo all’interiorizzazione del dolore che non può essere cancellato.
Paul Schrader porta sullo schermo il romanzo di Yoram Kaniuk pubblicato nel 1968, Adam resurrected. In Italia il film è stato proiettato in un solo cinema a Roma. Il resto della memoria sarà perpetuato in un semplice dvd. Ma niente potrà cancellare quegli orrori indicibili. Potremo vivere o morire, ridere o soffrire, ma nulla di tutto ciò che è stato potrà essere dimenticato.
«Noi siamo sopravvissuti! Non è un delitto! Il delitto è accusare te stesso!». «Noi non siamo morti! Chi siamo noi? Prima faceva male, ora non più. Alzate il vostro braccio, tirate su le vostre maniche e leggete il vostro numero. Noi siamo, per questa notte, un esercito di braccia».
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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Mai, non potremo dimenticare. No, non sapremo in nome di cosa. Non riusciremo a darci una risposta, perché nessuno prima di noi è riuscito a darsela.
L’unica cosa che possiamo fare è – parafrasando Levi – meditare su ciò che è stato, parlarne, codividere, scolpire questi fatti nei nostri cuori, perché – rimanendo sensibilizzati – possiamo essere pronti a reagire al primo segnale che tutto ciò si possa ripetere.
Grazie Antonella per i tuoi commenti sempre puntuali.
E’ terribile questa storia che insieme a migliaia di altre,ci impone di non dimenticare mai le innumerevoli stragi di innocenti nel corso della storia,in nome di cosa? Riusciremo mai a darci una risposta?E in ogni film,documentario,l’orrore si ripete sempre vedendo migliaia e migliaia di corpi straziati,martoriati da esseri fatti della loro stessa sostanza.Sono uomini?ma anch’io sono uomo e l’idea che miei simili,abbiano compiuto crimini così efferati,non mi da pace…e l’orrore si rinnova,ogni volta che guardo tali scene.