di Elena Bibolotti
Nei lontani anni sessanta il cinema italiano si prendeva un po’ meno sul serio, e forse sortiva un effetto migliore se affidato a semplici “canovacci”, lasciando alla regia e alla sceneggiatura il resto del lavoro, anziché a certi romanzi pluripremiati di oggi, le cui implicazioni psicoanalitiche e socio-culturali stanno meglio su carta.
Forse perché siamo nell’epoca de “I pugni in tasca”, della trilogia di Antonioni, di Visconti, dei capolavori di Fellini – omaggiato in questo film in una battuta della Martinelli – ma ogni regista cerca d’interpretare la realtà in modo sempre personale.
Nel film, prodotto da Carlo Ponti e diretto da Elio Petri, che vedremo presto alle prese con autori del calibro di Sciascia in film di grande impegno sociale, risalta per prima la musica di Piero Piccioni che, al contrario delle hit italiane di oggi, ha un ruolo dominante nel clima farsesco dell’opera.
Tratto dal racconto fantascientifico di Robert Sheckley, la storia, rimaneggiata da penne intinte nel sarcasmo come quelle di Flaiano e Guerra, non è che un pretesto.
Nel prologo, che inizia assieme ai titoli di testa, Ursula Andress in abito “optical” corre inseguita dal suo assassino fin dentro un locale, il “Maso” dove, ballando in un bikini osé, schiaffeggia gli spettatori fino al colpo di pistola.
Si tratta di un gioco diffuso a livello internazionale, e autorizzato dal Ministero della caccia, che fa sì che la violenza propria degli uomini venga canalizzata nella competizione anziché su vittime indifese.
Due nomi vengono estratti da un computer, in questo caso la vittima è Marcello Mastroianni e il cacciatore, Ursula Andress: chi arriva a mettere a segno dieci omicidi, vince un milione di dollari.
Le televisioni e gli sponsor fanno a gara per finanziare l’attività con eventi televisivi ad hoc, un “grande fratello” ante litteram dove conta solo conquistare punti d’ascolto. Contro il pericolo di guerre di massa, iscrivetevi alla Grande Caccia, Vivete pericolosamente, ma nella legge, sono gli slogan diffusi per tivù e radio.
Ma il film non è che una grande metafora sull’amore e una spietata critica verso l’istituzione del matrimonio.
Cacciatori e Vittime si rincorrono per il pianeta giocando d’astuzia, esattamente come nella vita maschi e femmine.
Mastroianni, bellissimo anche ossigenato, è vittima di una moglie avida, Luce Bonifassy, e dell’amante, la giovanissima Elsa Martinelli, e deve, assieme al suo avvocato – il fascinoso Massimo Serato – scovare il suo assassino e ucciderlo per non finire in bancarotta.
Ursula, fredda e insensibile, è accompagnata dagli USA da una troupe televisiva che, dopo una splendida ripresa in elicottero di Roma, decide di piantare il set al tempio di Venere, ed è lì che la cacciatrice attirerà la sua vittima per il gran finale a colpi di pistola.
Marcello le appare da subito un uomo calmo, sicuro, anche se a tratti rassegnato – ricalca un po’ il Marcello de “La dolce vita” – uno che paga lo scotto del proprio fascino latino e che, in fondo, non ha ancora trovato il vero amore.
I tempi si dilatano e l’azione si svolge durante ventiquattro ore di inseguimenti, ma ciò che fa di questo film dalla trama esile un piccolo capolavoro è la cura dei particolari e le parole, poche ed essenziali.
Le location, come le scenografie curate da Piero Poletto, sono eleganti ville sull’Appia, terrazze all’Eur, attici con vista su una Roma così poco trafficata da sembrare un set di Cinecittà e gli abiti, studiati da Coltellacci per un clima futuribile, sono indossati da attrici e attori non chirurgicamente modificati e proprio per questo, perfetti.
La Andress – anche se personalmente la trovo dura nei tratti – si muove con eleganza e sensualità per gran parte del film, in un due pezzi rosa shocking, pantaloni a sigaretta con piccole aperture triangolari sul di dietro, bolerino a mezza manica completamente aperto sulla schiena e capelli cotonati lasciati sciolti: una leonessa. L’amante, la giovanissima Elsa Martinelli, la vedremo nel suo massimo splendore in un caschetto nero stagliarsi in un esterno giorno sui Fori, in abito corto bianco latte, con cappellino con visiera, guanti e pistola.
Il clima del film è ironico, imprevedibile, leggero e pieno di invenzioni, eppure la critica verso il Vaticano e l’istituzione “matrimonio” è fortissima. Perché sposarsi? dice Marcello a Ursula distesa su una dormeuse nera, in Italia nessuno si sposa, in Italia tutti convivono.
Feroce, e qui la penna del maestro calca per bene sul dramma dei rapporti interpersonali, la scena in cui disquisiscono sulla “verità” nelle relazioni sentimentali: la verità in amore non va mai detta, sentenzia pigramente Marcello, meglio la finzione, prosegue, meglio l’inganno e una bugia ben strutturata.
E forse, è tristemente vero anche ai giorni nostri.
La concezione del maschio come emblema della virilità, decade miseramente per bocca della Andress: sei un debole e un vigliacco, per te non darei neanche un soldo. Marcello è la vittima nelle mani di donne bellissime e forti in grado di lottare per la propria vittoria.
I finali sono quattro e in comica sequenza.
Sui titoli di coda, una Mina dal timbro giovane, intensa, la voce chiara che le permette ancora sfumature sottili grazie all’estensione che ben conosciamo, e a una direzione esperta come quella del grande Piero Piccioni.
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La decima vittima, Italia-Francia, 1965, regia di Elio Petri
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Bellissima recensione! E continuiamo a dirlo che quel Cinema, che aveva tanta classe da potersi permettere tutto, ci manca!