di Elisa Scaringi
Ave, Cesare! Non è un film per tutti. Chi volesse ridere a crepapelle è chiamato a ricredersi. E chi non avesse mai masticato l’ironia dei fratelli Coen desista dal comprare il biglietto. Ave, Cesare!, infatti, non è un film comico, né tanto meno un genere adatto a tutti i palati. Si tratta, invece, di una pellicola fortemente caratterizzata, alla cui visione è necessario affiancare una minima conoscenza dello stile alla Coen, ironico e irriverente fin dai suoi inizi. È necessario sapere, dunque, alcune “cosette” per riuscire a comprendere (almeno in parte) la ricchezza sommersa di questo film.
Prima di tutto, Ave, Cesare! è l’ultima puntata della Numbskull Trilogy (trilogia del cretino), di cui fanno parte Fratello, dove sei? (2000) e Prima ti sposo poi ti rovino (2003). A presenziare le tre puntate un George Clooney che abbandona l’impegno “serioso” per abbracciare il ruolo di un “tonto” prestato alla commedia demenziale (che di stupido non ha proprio nulla).
Secondo, non esiste un eroe “vero”. C’è Baird Withlock (George Clooney), protagonista del film (finto) che dà il titolo alla pellicola (vera), Ave, Cesare! appunto. E c’è Eddie Mannix (interpretato da Josh Brolin), che tesse le fila dei “mille” film che vengono girati all’interno di Ave, Cesare! Parliamo, quindi, di una meta-pellicola, che svela i segreti della Hollywood anni Cinquanta, attraverso una carrellata di generi (storico, acquatico, western, musical) che si intersecano e si rincorrono. Lo schermo nello schermo. La telecamera a vista. I teatri di posa. A tenere le fila di tutto il fixer Eddie Mannix, il “risolutore” della Capitol Studios. Colui che sbroglia la matassa (frivola) di attori, registi e giornalisti esperti di gossip. C’è il filo principale (Clooney, bravo ma tontolone, rapito dai comunisti), e ci sono le maglie parallele (l’attrice bella, incinta e non sposata, DeeAnna Moran; il cowboy canterino, bravo nei rodeo ma incapace di recitare, Hobie Doyle).
Terzo, il divertissement meta-cinematografico nasconde una profonda vena teologica, filosofica e politica. Non tanto nella storia del film nel film (Ave, Cesare! racconta infatti della conversione di un tribuno alla fede dopo il contatto diretto con Gesù di Nazareth), quanto piuttosto nel gioco di rimandi, spesso impercettibili, alla frivolezza di Hollywood (opposta alla fede profonda di Mannix), alla stupidità di attori belli (contrapposti all’intelligenza di sceneggiatori invisibili), alla confusione del dietro le quinte cinematografiche (industria che incanta il pubblico con la sua finzione in cambio di incassi da capogiro). A tessere queste fondamenta solide della pellicola ci sono quindi rimandi “alti”, quali il Capitale di Carlo Marx e la filosofia di Herbert Marcuse (profondamente convinto di quanto le società democratiche siano in fondo totalitarie, nel momento in cui rendono impossibile qualsiasi forma di opposizione).
I fratelli Coen confermano, dunque, la loro bravura. Che sta fondamentalmente nella capacità di mescolare generi, messaggi e strumenti, senza scadere nel facile gioco della leziosità da “maestri” di vecchia data o nella forza di un successo mediatico ormai accreditato. Anzi, il loro messaggio è proprio l’opposto: fate attenzione alle insidie che abitano il mondo cinematografico, che apparentemente abbaglia (suscitando nell’immaginario comune la convinzione che esista un mondo perfetto), ma in realtà è pieno di colpi di scena, stupidità, frivolezze e “aggiustamenti” forzati. Ave, Cesare! non allude quindi al saluto romano che i gladiatori rivolgevano all’imperatore, ma alla sua accezione più scherzosa, che sdrammatizza sull’avvio di un’attività (la visione del film) dall’esito incerto e rischioso (riuscirà il pubblico a comprenderne l’ironia?).
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