di Francesco Grano
Baby (Ansel Elgort) lavora come esperto autista per una banda di rapinatori composta da Buddy (Jon Hamm) e Darling (Eiza González). La gang è capeggiata da Doc (Kevin Spacey), l’uomo verso cui Baby ha un debito per un furto commesso anni prima. Dopo una serie di colpi andati a segno Baby crede di essere riuscito ad uscire dal giro, avendo ridato a Doc ciò che gli spetta. Un giorno in una tavola calda conosce Deborah (Lily James) una sua coetanea che lavora come cameriera. Accomunati dall’amore per la musica i due fantasticano su una possibile vita insieme, in costante viaggio da una parte all’altra degli Stati Uniti. Tornato a una vita normale Baby viene nuovamente avvicinato da Doc, il quale lo obbliga a partecipare a un ultimo grosso colpo. A peggiorare la situazione ci pensa “Pazzo” (Jamie Foxx), un rapinatore psicopatico, violento e dal grilletto facile che si è unito al gruppo. Senza via di scampo Baby si rimette al volante per evitare ritorsioni contro Deborah. Ma qualcosa va storto e la rapina sprofonda nel sangue.
(Ri)scrivere un genere cinematografico e, con esso, le sue coordinate già ben rodate e categorizzate, non è mai un’impresa facile visto e considerato l’immenso mare magnum dell’immaginario legato alla Settima arte. Operazione rischiosa e con non poche incognite a suo carico di certo tale azzardo non preoccupa il regista britannico Edgar Wright che, a distanza di qualche anno dai fasti e dalle glorie della sua Trilogia del Cornetto, torna sul grande schermo con Baby Driver – Il genio della fuga (Baby Driver, 2017). Dopo aver saccheggiato e parodiato il cinema zombesco del compianto George A. Romero, quello poliziesco e action spaziando dal Point Break di Kathryn Bigelow fino ai due Bad Boys di Michael Bay per poi passare alla sci-fi rispettivamente per L’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e La fine del mondo, Wright con Baby Driver ha voluto omaggiare e proporre la rivisitazione – a modo suo – dell’heist movie, ovvero del sottogenere filmico incentrato sulle rapine.
Baby Driver dimostra fin dalle battute iniziali e dal suo incipit in medias res quella che è la sua vera natura di film privo di una certa serietà autoriale. Aspetto questo che, di certo, non va inteso come mancanza di qualità, ponendosi nella accezione di prodotto che si discosta dai canoni a cui gli spettatori di tanto cinema d’azione sono (ormai) abituati. La nuova opera di Edgar Wright, questa volta in trasferta negli States, procede per addizione, accumulando luoghi e situazioni familiari per i cinefili più attenti. Baby Driver, al pari dei precedenti lungometraggi di Wright e ai lavori di Quentin Tarantino, vive e si nutre di un citazionismo mai nascosto e neanche plagiato in maniera demenziale o eccessivamente ironica. Non mancano le influenze dello splendido thriller metropolitano di Nicolas Winding Refn Drive, così come le citazioni dirette di grandi opere come Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Gangster Story di Arthur Penn e Heat – La sfida di Michael Mann, quest’ultimo omaggiato nella rapina finale con conseguente scontro a fuoco con la polizia, esplicito richiamo alla sparatoria losangelina al centro di Heat. Baby Driver è un prodotto al 100% fatto di cultura pop che trasuda da ogni singola inquadratura che lo compone. Senza limitarsi a mero citazionismo di passaggio sullo schermo di un televisore (medium par excellence della cultura pop) e battute di film d’animazione pronunciate dai personaggi, Baby Driver riesce ad attestare la propria identità di meta-film, senza dover a tutti i costi scadere nel banale del già visto trito e ritrito.
A metà strada tra l’action più scatenato e la commedia nera Edgar Wright ha confezionato una bomba ad orologeria che – lentamente – avvia un inesorabile quanto imprevedibile countdown verso un’escalation di sangue e morti ammazzati che si evolve – parallelamente – alla love story tra l’autista Baby e la cameriera Deborah, scandita da un repertorio musicale di tutto rispetto. Ed è proprio la musica il filo conduttore di tutto Baby Driver non solo come soundtrack del film in sé ma come elemento portante del background del suo personaggio principale. Così come sempre la musica lega tra di loro le sequenze (davvero ben realizzate e adrenaliniche al punto giusto) di fuga e inseguimento e quelle action, trasformando le sparatorie di Baby Driver in balletti di piombo ed emoglobina ipercinetici e iperbolici, in cui ogni singola pallottola deflagrata segue la partitura musicale in un crescendo di toraci sforacchiati a fucilate e headshot. Diversamente da L’alba dei morti dementi e Hot Fuzz, Baby Driver mette da parte lo spirito parodico e demenziale per lasciar posto a un black humour dalle influenze british condito da scene di violenza più realistiche, prive di un ricorso allo splatter grottesco che caratterizza i già citati precedenti film di Wright ma, tuttavia, non depauperate di una certa dose di brutalità.
Opera sui generis e pulp in cui alberga uno spirito anarchico e folle, Baby Driver – Il genio della fuga è un bilanciato connubio tra rapine, amori (e morti) a ritmo di musica e velocità, un lavoro cinematografico che non si prende e non si lascia mai prendere sul serio, presentandosi spudoratamente per quello che è: un puro esempio di entertainment che mira a divertire in maniera scanzonata e senza fare troppo sul serio, con una galleria di ladri e psicopatici imprevedibili (su tutti il Buddy di Jon Hamm e il “Pazzo” di Jamie Foxx) che lasciano il segno. Baby Driver non è di certo un capolavoro ma nel suo (non) genere di sicuro possiede i giusti attributi per assicurarsi l’etichetta di cult cinefilo che, utilizzando la oramai classica massima tarantiniana, «O si ama o si odia».
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