di Francesco Grano
Campione mondiale imbattuto dei pesi medio-massimi, il pugile Billy “The Great” Hope (Jake Gyllenhaal) vede la sua esistenza crollare a pezzi quando, alla fine di una serata benefica sfociata in rissa con l’arrogante sfidante Miguel Escobar (Miguel Gomez), l’amata moglie Maureen (Rachel McAdams), viene mortalmente ferita da un colpo di pistola deflagrato da un uomo della sicurezza di Escobar. A peggiorare la situazione e i sensi di colpa che dilaniano Hope, ci pensano i debiti, l’abbandono del suo manager Jordan Mains (50 Cents) passato alla concorrenza e la perdita del titolo mondiale per comportamenti violenti sul ring. Sprofondato sempre più in un nero baratro che lo spinge a gesti estremi, il pugile perde i suoi beni e la custodia di sua figlia Leila (Vittoria Bartolomei), la quale è affidata agli assistenti sociali. Obbligato dalle autorità competenti a rimettersi in riga, Billy intraprende una lotta personale contro se stesso. Un fondamentale contributo gli viene offerto dalla conoscenza con l’allenatore Titus “Tick” Wills (Forest Whitaker), il quale aiuta Hope a recuperare fiducia e speranza, così da poter riconquistare il titolo e riprendersi sua figlia.
Di certo il cinema dagli inizi ad oggi non è privo di film incentrati sulla boxe, né tantomeno di storie relative a rovinose cadute e miracolose rinascite. Forse Antoine Fuqua, insieme allo sceneggiatore televisivo Kurt Sutter, nel dirigere Southpaw – L’ultima sfida (Southpaw, 2015) crede di aver contribuito nel colmare un potenziale “vuoto” che – effettivamente – non esiste. Ciò che non convince dell’ultimo film di Fuqua è il disequilibrio di genere, giacché non vi è un giusto e preciso dosaggio tra l’aspetto sportivo e quello drammatico-esistenziale delle vicende. Dopo un serrato incipit ben diretto, Southpaw cade nelle maglie del già visto e non è un puro caso se, più di una volta, si prova quella sensazione di déjà vu durante la visione. Non per niente il lungometraggio di Fuqua pesca a piene mani da pellicole-capostipite sulla boxe come Rocky (id., 1976) ed i suoi svariati sequel, per poi passare ad un antesignano come Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me, 1956) e al capolavoro di Scorsese Toro scatenato (Raging Bull, 1980), così come non mancano i “copia e incolla” (al limite del plagio?) presi dall’eastwoodiano Million Dollar Baby (id., 2004).
Il primo, grave punto debole di Southpaw è proprio la mancanza di originalità che sta alla base dell’intero film. Nel raccontare le vicende di Billy Hope, pugile votato all’autodistruzione ma che cerca in tutti i modi di aggrapparsi a quella “speranza” insita nella propria onomastica (hope in inglese vuol dire, appunto, speranza), prevale la componente drama, a tratti veramente melensa e gratuita, rappresentata non solo dalla tragica caduta del protagonista ma anche dalle uscite di scena di personaggi secondari (e qui non andiamo oltre per non rivelare spoiler) i quali non presentano il minimo approfondimento del background psicologico né tantomeno la motivazione dell’esistenza in scena in quanto personaggio di contorno.
A quanto scritto fin qui, c’è da aggiungere la non proprio convincente interpretazione del nuovo mostro sacro Jake Gyllenhaal, in questo film votato ad uno stile recitativo più asciutto e decisamente (o volutamente?) sotto le righe. Sono lontane le interpretazioni istrioniche ed eccelse di End of Watch – Tolleranza zero (End of Watch, 2012), Prisoners (id., 2013) e Lo Sciacallo – Nightcrawler (Nightcrawler, 2014) con le quali Gyllenhaal ha emozionato ed incantato le platee internazionali. L’attore punta in Southpaw più verso una fisicità scultorea che ad una vera e propria prova attoriale di classe, quasi a voler creare il simbolo, l’icona rappresentativa da piazzare nell’immaginario collettivo per poter dare un’identità omogenea (che manca) al film.
Sport-drama lento e incapace di suscitare vere emozioni nello spettatore, l’ultimo lavoro di Antoine Fuqua, regista dalla carriera altalenante e non proprio originale – eccezion fatta per tre suoi film, il poliziesco Training Day (id., 2001), l’action Shooter (id., 2007) e il thriller The Equalizer – Il vendicatore (The Equalizer, 2014) – cerca un disperato ultimo guizzo, un ultimo colpo di coda nel canonico finale da quindici minuti in cui “l’ultima sfida” del titolo si realizza, ovvero l’incontro (venato di vendetta) tra Hope ed Escobar. Sfida, incontro sul ring che (legato indissolubilmente alla ferrea logica hollywoodiana dell’happy end forzato) non appassiona, non accalappia nonostante il regista abbia cercato (senza avvicinarsi minimamente) in tutti i modi di ricreare, di emulare quel pathos di ritmo e immagini dell’epico incontro tra Muhammad Alì e George Foreman con cui si conclude lo splendido biopic di Michael Mann, Alì (Ali, 2001). Film dalle buone idee di partenza ma sacrificate ai meccanismi del riciclo cinefilo, Southpaw – L’ultima sfida dimostra di essere l’ennesima occasione sprecata per il regista e un passo indietro per Jake Gyllenhaal, il quale poteva mostrare – ancora una volta – le sue incredibili doti di attore.
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