di Elisa Scaringi
Citizenfour è un nickname. Citizenfour è anche un documentario, che ha vinto il premio Oscar 2015. Citizenfour è soprattutto un sacrificio per denunciare un’ingiustizia.
Giugno 2013, Hotel Mira di Hong Kong. Otto pericolosissimi giorni davanti la telecamera. Tra le lenzuola bianche di una camera d’albergo Edward Snowden denuncia il furto delle garanzie democratiche nell’esplorazione intellettuale. Alcuni Enti – come la National Security Agency, con la complicità delle grandi compagnie di telecomunicazioni e l’adesione di alcuni governi europei – raccolgono e incrociano dati riservati, senza le dovute autorizzazioni. Un gigantesco Grande Fratello, nascosto e taciuto da tutti tranne che da Snowden appunto, contractor della National Security Agency, costretto a fuggire in Cina e ora residente in Russia, dove ha ottenuto l’asilo politico fino all’agosto del 2016, grazie all’intermediazione di Julian Assange di Wikileaks.
Citizenfour è un documentario capovolto: la regista, Laura Poitras, viene contattata dal protagonista, Edward Snowden, tramite messaggi criptati sotto l’alias citizenfour, dopo averla identificata come affidabile e interessata ai fatti, visti i suoi lavori precedenti (My country my country sulla guerra in Iraq e The Oath su Al-Qaeda e Guantanamo). Snowden ingaggia anche il suo intervistatore, il giornalista Glenn Greenwald, facendosi così non solo guida del racconto, ma anche sceneggiatore per la scelta dei personaggi.
Diversamente da quanto accaduto per Snowden’s Great Escape di John Goetz, in Citizenfour è lo stesso protagonista a creare un thriller dai tocchi horror, che sfocia in una spy story internazionale: pur essendo il ricercato, Snowden cerca esposizione attraverso la macchina da presa, non protezione. Vuole risvegliare le coscienze con interrogativi inquietanti legati all’idea di essere continuamente spiati, tentando di riportarci ad affermare nuovamente uno stato di diritto e di democrazia.
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