di Elisa Scaringi
Potrebbe sembrare un film di guerra: combattimenti, sparatorie, ammazzamenti. E invece non lo è. Dunkirk è un’opera visiva, da guardare per il puro gusto degli occhi. Una goduria difficilmente spiegabile a parole. Perché i protagonisti non sono i soldati in battaglia, quanto piuttosto la terra, il cielo e il mare. Tre luoghi distinti che si ignorano e poi si scontrano, facendo della guerra il pretesto per giocare sull’uso della parola filmica. Attraverso il linguaggio delle immagini in movimento, infatti, si racconta di un fatto storico sconvolgente: l’accerchiamento degli eserciti inglese e francese presso la spiaggia di Dunkerque (inglesizzata nel titolo, che qui suona come Dunkirk) tra il 24 maggio e il 4 giugno del 1940.
Quello che nel film è qualcosa di soffocante, che rende l’ambiente circostante invivibile e inguardabile, alla fine si trasforma in un miracolo: quello della cittadina francese di Dunkerque, dalla quale circa 300 mila soldati britannici e 120 mila francesi vennero salvati dall’attacco tedesco attraverso il mare, con un dispiegamento di navi militari, cacciatorpedinieri e imbarcazioni civili. Ciò che impressiona è la capacità del regista di rendere in un ambiente così apparentemente vasto (l’oceano che attraversa la Manica e il cielo che lo sovrasta) una percezione di claustrofobia, nella quale il nemico non ha un volto, ma soltanto degli occhi capaci di scovare e colpire l’esercito impotente spiaggiato sulle rive di Dunkerque o in cerca di salvezza sulle navi della marina.
Non c’è nessun luogo dove poter avere scampo, né terra né mare né cielo. Le bombe sono ovunque. Lo spettatore si sente accerchiato, e la musica martellante ne asseconda l’adrenalina. Dispiace quasi giungere alla fine, dove c’è salvezza per molti, nonostante la morte e la paura. L’ansia si placa sul treno che sfreccia e il miracolo che si è appena compiuto. Ma nelle orecchie rimane il suono del tempo che ticchetta sempre più forte e guida il nemico senza nome contro la sabbia e l’oceano. Una guerra senza vincitori né vinti, vittime o carnefici, fazioni e comandanti. Solo degli uomini vestiti da soldati che si ritrovano, senza passato né nome, sotto le bombe di un cielo, di un mare e di una terra che non lasciano un attimo di tregua: l’artiglieria oltre le nuvole, i siluri sotto l’acqua, i fucili dietro le siepi. E anche sulle navi dei civili l’ansia e l’incredulità perseguitano chiunque.
Il film di Christopher Nolan non lascia un attimo di respiro: tutto è costruito, dal montaggio alla musica di Hans Zimmer, in un crescendo di adrenalina ansiosamente incontenibile, dove il sangue e la morte sono quasi nulla di fronte all’inesorabilità del nemico, che non lascia scampo (né in terra, né in mare, né in cielo). Nessun luogo è al riparo: nemmeno la stiva di una nave spiaggiata. Tutto sembra essere un eterno maleficio sulle teste e sotto i piedi di centinaia di migliaia di soldati. Dunkirk è dunque una pellicola davvero unica nel suo genere, originalissima nel modo di raccontare la guerra e memorabile per l’incastro perfetto tra la musica e il montaggio. Dopo lavori anch’essi molto ben fatti, come Inception o Interstellar, Christopher Nolan non si adagia sugli allori: supera se stesso, portando il suo stile (fatto di storie complesse e dall’intreccio fittissimo) verso lidi assolutamente inaspettati. Sebbene la sceneggiatura sia così scarna (anzi, quasi assente), il film ne guadagna in capacità di trasmettere l’ansia e la paura di una guerra inesorabile, dalla quale è impossibile sfuggire.
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