Dimenticate Incantesimo, dimenticate gli affanni e le fatiche quotidiane perché si va in scena per sognare – attraverso il corpo, la mente e la voce di Giuseppe Pambieri – la vita e la morte di uno dei più grandi geni della finzione. Non un bugiardo, bensì un attore, colui che rende tangibile e concreto il passaggio dallo scritto alla vista, dall’immaginazione alla realtà. Quella realtà tutta particolare che lo spettatore vuole vedere e credere, quella per la quale ha pagato e staccato il biglietto.
Edmund Kean, il tiranno del Drury Lane, colui che volle, fortissimamente volle, raggiungere le vette più alte del successo, placare il morso della fame che lo spingeva a diventare grande, mostrare le sue capacità, esprimere il fuoco dell’arte che dentro lo divorava: Edmund Kean, genio e sregolatezza diventa con Pambieri uno spettacolo nello spettacolo, la finzione dentro se stessa, la recita di un attore che omaggia un grande della tragedia shakespeariana.
«Ma secondo voi, oggi, è possibile per un attore interpretare ruoli di Shakespeare, così come Shakespeare li ha concepiti? Oppure questo è possibile solo in un teatro della mente, dell’immaginazione, ma non nella realtà concreta del palcoscenico?». Quali devono essere le doti che contraddistinguono un bravo attore da uno tecnicamente ben impostato? L’attore deve vibrare di emozioni, affinché la vibrazione che parte da dentro se stesso possa giungere al pubblico seduto sulle poltrone di fronte. Solo così si potrà instaurare quel legame profondo e misterioso che li potrà fare viaggiare uniti, abbattendo la separazione della quarta parete. Non basta la parte, non basta un grande ruolo, non basta un buon testo, occorre di più, occorre un legame che è fatto di sensazioni impercettibili, che l’orecchio non coglie, ma che possono essere filtrate dal cuore.
Dicono che di questo fosse capace Edmund Kean, la cui parabola esistenziale s’incrocia con quella dei personaggi da lui interpretati e raccolti nel testo a lui dedicato, scritto da Alexandre Dumas e adattato per il teatro, prima da Jean Paul Sartre e infine da Raymund FitzSimons.
E sicuramente ne è capace anche il bravissimo Giuseppe Pambieri che eredita un ruolo già affrontato da grandi colleghi come Vittorio Gassman – che ne trasse anche un film – Gigi Proietti, Ben Kingsley e Giancarlo Zanetti. Ha percorso l’Italia nel lungo e nello stretto dello stivale il suo appassionante monologo con il quale racconta la vita e la morte del grande attore inglese, i cui eccessi e stravizi ne minarono la carriera e il successo.
Nel testo di FitzSimmons, Kean è un attore sempre pronto a balzare sulle ali del successo, ardente dal desiderio di mostrare le proprie abilità, ma perennemente relegato nel ruolo di Arlecchino che qui, confrontato con lo spessore degli ambiti ruoli nei personaggi di Shakespeare, rappresenta la degradazione da attore a giullare. «E così m’impediscono di recitare Otello, Amleto, Lear. Ma c’è sempre un ruolo che mi è concesso d’interpretare: Arlecchino! Studiare, faticare, lavorare! Se voglio fare Amleto devo studiarlo a fondo, finché diventi parte di me stesso».
Così Kean sfida la malasorte e i preconcetti intestardendosi nella ricerca dei ruoli perfetti per sé. «Ma Dio concederà mai a un attore di rivelare appieno Macbeth, Amleto, Lear, mai ancora rivelati da nessuno? Non c’è forza umana che possa frenare l’impeto del talento inespresso». Di conseguenza diventa girovago, trascinando nel baratro della povertà la famiglia, finché un giorno – inaspettatamente – lo coglie la grande occasione. Attraverso una serie di eventi gli viene concessa la possibilità di esibirsi davanti al pubblico del Drury Lane, e giunge così all’ambito traguardo. Durante una notte gelida e nevosa si alzò il sipario e Il mercante di Venezia ebbe inizio.
A Pambieri basta incrociare appena le dita davanti il volto, stringere leggermente le spalle, per rendere l’immagine del perfido Shylock: «Signor Antonio, a Rialto voi spesso mi avete rinfacciato i miei soldi, le mie usure […] Avete sputato sulla mia gabbana d’ebreo. E tutto questo per l’uso che facevo del mio. Adesso, sembra che abbiate bisogno d’aiuto […] E venite a chiedermelo proprio voi che mi avete sputato sulla barba, voi che mi avete preso a calci come un cane rognoso […] Cosa dovrei rispondere? Possiede soldi un cane rognoso?».
Finalmente il successo raggiunge Kean, ma la sua anima precipita sempre di più. Il teatro è sempre strapieno quando recita Kean, ma la parabola discendente inizia proprio quando si raggiunge la vetta più alta, perché l’anima umana è composta da tanti colori come quelle dei personaggi di Shakespeare. «Si possono imitare alla perfezione i colori di un’anima? I personaggi di Shakespeare hanno in sé tutti colori della vita e non c’è alba che non contenga in sé i germi della notte».
«Aut Caesar aut nullus», amava dire Kean: o Cesare o nessuno. Così, una volta salito sul palco l’ambizioso Kean deve diventare l’unico attore in scena, gli occhi si devono posare soltanto su di lui: o Kean o nessuno. Quasi in simbiosi con Riccardo III, che attraverso spietate manovre conquista il suo trono, Kean monopolizza le scene con le sue magistrali interpretazioni: «Ma io che non fui creato per giocare in allegria, né modellato per corteggiare un amoroso specchio; io stampato male, che manco di fascino regale per fare la corte a una ninfetta sculettante; io cui non fu concessa figura d’uomo, sbagliato per inganno di natura, decentrato, deforme, incompiuto, entrato prima del tempo nel gran respiro del mondo, finito a metà, sgangherato, che i cani mi abbaiano dietro; io in questo sciocco, pigolante tempo di pace, chissà perché non provo altro diletto che specchiare la mia ombra nel sole e commentare la mia deformità?».
Lo spettatore si chiede: fu vera gloria quella di Kean o soltanto un fascio di luce gettato sul buio dell’eternità? «Spegniti, spegniti, breve candela», diceva Macbeth. «La vita è solo un’ombra che cammina; la recita penosa di un attore che si dimena tronfio sulla scena per quell’ora che gli spetta e poi cade nell’oblio». O corona, tu ti esalti della tua stessa, terrificante, gloria!
Tutto bello, anzi bellissimo. Ma ricordiamoci che è solo l’arte. La vita, quella vera, è dentro di noi. Del resto, lo stesso Pambieri in un’intervista ci dice: «Non dobbiamo guardare al teatro come un luogo sacro. Chi ci va, dovrebbe poterci andare anche con la sporta della spesa, soltanto per godere dello spettacolo».
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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