di Francesco Grano
Anguillara Sabazia (Roma). Luciana (Paola Cortellesi) e Stefano (Alessandro Gassmann) sono una coppia sposata. Operaia in una fabbrica la prima, disoccupato che cerca di guadagnare qualcosa con piccole vendite il secondo, nonostante gli alti e bassi e le difficoltà economiche e quotidiane i due si amano e vanno avanti felicemente. Da tempo moglie e marito desiderano avere un figlio. Quando il lieto evento si prospetta Luciana perde il posto di lavoro, poiché il responsabile della fabbrica si rifiuta di rinnovarle il contratto vista la gravidanza in corso. Antonio (Fabrizio Bentivoglio) è un poliziotto trasferito d’ufficio a causa della morte, da lui indirettamente provocata, di un giovane collega. Oppresso dal senso di colpa e dal peso dell’infamia, nella piccola cittadina l’agente deve fare i conti con l’aria di ostilità e chiusura nei suoi confronti, nonché tener testa alle vessazioni da parte dei colleghi. Passa il tempo, la gravidanza avanza e Luciana si trova sempre più con l’acqua alla gola, non sapendo come mantenere se stessa, suo marito e il bambino in arrivo. Ad aggravare la situazione ci pensa il menefreghismo di Stefano e la scoperta, fatta da Luciana, della relazione extraconiugale del marito. In un vortice di nera disperazione, Luciana decide di compiere un gesto estremo ma la sua strada si incrocia tragicamente con quella di Antonio.
Tratto dall’omonima pièce teatrale, andata in scena dal 2005 al 2007, Massimiliano Bruno (tra l’altro sceneggiatore dell’opera originaria) dirige Gli ultimi saranno ultimi (2015), dramma esistenziale sulle difficoltà del vivere. Con piglio asciutto e sicuro, Bruno evita patetismi di genere e – senza fronzoli – mira allo scopo principale della sua messa in scena. Nel raccontare due storie all’apparenza non correlate ma che, in fondo, procedono di pari passo nella stessa realtà quotidiana, il regista pone una nuda e cruda riflessione sulla crisi economica (e i suoi effetti collaterali) che da anni ormai affligge il nostro Paese e le classi meno agiate.
Senza peli sulla lingua e remora alcuna, Gli ultimi saranno ultimi rappresenta la discesa agli inferi di una donna disperata (interpretazione notevole della Cortellesi) alla quale il sistema lavorativo/economico/capitalista non concede la possibilità (in questo caso il “lusso”) di realizzare il proprio sogno di maternità perché, in tempi di crisi, la forza lavoro è fondamentale. Parimenti l’agente di polizia (ben interpretato da Bentivoglio) vive il suo personalissimo inferno in terra, vista la sua incapacità di reinserirsi nella quotidianità. Quella di Luciana e quella di Antonio sono due esistenze tragiche, entrambe gettate nella fossa dei leoni di una società spietata e affarista, in cui il più debole o – meglio – chi non riesce a procacciare alcun profitto, viene messo al margine, tagliato fuori dall’impiego lavorativo, mentre chi è tacciato di colpe viene guardato con sospetto e deriso in tutti i modi possibili e immaginabili.
Attraverso una regia senza sbavature – per certi versi ricorda il grandioso neorealismo e il pedinamento di zavattiniana memoria – e che non lascia mai spazi vuoti, alternando sequenze tra ricostruzione dei fatti e conclusione della vicenda, Gli ultimi saranno ultimi spesso e volentieri si sofferma sugli sguardi e sull’azione del guardare/vedere: attraverso gli occhi, mediante lo sguardo smarrito di Luciana lo spettatore vede, assiste alla completa distruzione di una donna travolta dalla mancanza di sostentamento, da un marito “presente-assente” e fedifrago e dall’impossibilità di trovare una soluzione alle difficoltà se non con un gesto di extrema ratio. Uno sguardo smarrito è anche quello di Antonio che, con realismo e tout court, vede e mostra gli aspetti (scevri da ogni stereotipo e cliché di sorta) della vita provinciale legata spesso all’anonimato e alla esclusione sociale.
Film oggi come oggi attuale e al di sopra della media delle odierne produzioni nostrane, Gli ultimi saranno ultimi in tutta la sua semplicità e senza retorica (molto probabilmente sono questi i due grandi punti che giocano a favore del film) è un piccolo atto di accusa (e anche di denuncia) mai banale (anche se alla fine prevale la convenzione dell’happy end) sulle numerose situazioni reali (a volte nascoste agli occhi) legate al malessere economico e all’assenza del lavoro. Una storia vera, quindi, come quelle che ogni giorno si consumano nella lotta quotidiana per la sopravvivenza e che, spesso e purtroppo, sono completamente ignorate o messe a tacere.
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