C’era una volta un leader, anzi c’è ancora, che soffiò sulla sua potente nazione il vento del rinnovamento, un uomo capace di portare la culla del comunismo fino alle soglie della democrazia.
C’era una volta un leader, un potente capo di stato, che sapeva anche amare una donna, una sola, quella della sua vita. Dietro un uomo di successo c’è sempre una grande donna. Adesso quella donna non c’è più. Se l’è portata via il vento leggero di una subdola malattia.
Per onorarne la memoria a dieci anni dalla sua scomparsa, l’uomo, il vedovo inconsolabile, le ha dedicato una raccolta di canti d’amore. L’album, composto di sette canzoni da lui personalmente incise, è stato pubblicato in un’unica copia. Battuto all’asta, il ricavato è andato in beneficenza a un ospedale per bambini malati di leucemia.
Se Raissa da qualche parte ascolta ancora la voce del suo amato Michail Sergeevič Gorbaciov, può essere fiera di avere avuto accanto un compagno di vita capace di manifestarle un sentimento che travalica anche l’esistenza terrena, che neppure la morte ha potuto soffocare.
Potrebbe essere una bellissima storia d’amore, come quella di una lacrima di marmo che si ferma sulla guancia del tempo, la storia di uno dei palazzi più belli del mondo, il mausoleo di Taj Mahal, fatto costruire dall’imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie morta di parto, mentre dava alla luce il loro quattordicesimo figlio.
Anche questa potrebbe essere la nostra storia, ma non è lo è. La nostra è un’altra storia:
Marino Pacileo (Toni Servillo) è Gorbaciof, di Stefano Incerti. Di giorno fa il cassiere al carcere di Poggioreale, la notte invece la dedica alla passione per il gioco: scommesse in genere, ma soprattutto il poker in una bisca clandestina. La moglie non ce l’ha. Lo vediamo sostare brevemente davanti a una tomba sulla quale depone un piccolo mazzetto di fiori.
La sua è una vita in cassetta, tutta preordinata nella coltivazione della solitudine. I suoi gesti sono meccanici, il suo percorso sempre uguale, la camminata svelta e diritta verso la solita meta. Persino la camicia rossa sotto la giacca grigia rimane cristallizzata accanto alla maschera immutabile del suo volto.
Per dedicarsi al suo vizio Marino ha bisogno di soldi e di piccoli prestiti, che lui stesso si concede prelevando il necessario dalla cassa del carcere che gestisce in totale autonomia. In modo meccanico e preciso i soldi entrano nella tasca sinistra per moltiplicarsi al gioco delle carte e riescono da lì per ritornare dentro la cassaforte di Poggioreale.
Questa sua certezza e decisione nell’isolamento lo rende una tigre tra le scimmie, perché nel paese degli uomini ciechi, colui che ha un occhio solamente è un re.
Nessuna emozione, soltanto gesti meccanici ripetuti senza l’anelito vero, quello della vita. Gesti rituali e vuoti, privi di parole, nella cornice di paesaggi metropolitani al neon, più vicini alle fredde capitali orientali che al selvaggio paesaggio di Scampia. E tutto questo a Gorbaciof, l’uomo con la voglia rossa sulla fronte, non piace. «E a te che ti piace, Gorbaciof?».
Si dice che la voglia rappresenti una passione nascosta. Quella rossa potrebbe nascondere l’amore. Che Marino sia attratto da Lila, la figlia del cinese nel cui retrobottega si siede tutte le sere al tavolo della bisca, non è più un segreto. Non lo può essere semplicemente perché, quando passa lei, è l’unico momento nel quale il suo sguardo compie una variazione di percorso.
Lila però rischia di diventare una merce di scambio, per colmare i debiti al gioco dello sciagurato padre e Marino non intende permetterlo. Ecco, dunque, che per aiutare Lila i prelievi dalla cassa del carcere diventano più consistenti e l’azzardo per rientrare dalle esposizioni, meno freddo e razionale. E, si sa, la passione mal si concilia con la fortuna.
Tutto comincia dunque a ruotare male per Marino, ma qualcosa cambia: la sua vita si riempie di un interesse. È un interesse quasi simbolico: Lila non parla l’italiano, Marino non parla quasi, i due si guardano muti e curiosi di approdare in territori sconosciuti, nei quali dare è più importante che ricevere. Il loro è un gioco semplice, fatto di sguardi su corpi e volti che i più considererebbero derelitti o non noterebbero neppure. La loro è la scoperta degli angoli segreti, nascosti nella metropolitana fredda e indifferente, al pari delle emozioni seppellite sotto le corazze di antiche solitudini.
Davanti a un amore così semplice, innocente – e persino impossibile – sembrano crollare le vecchie regole contrattuali nelle quali l’uomo moderno vuole rinchiudere le sue passioni. Ci si ama, è vero, ma soltanto a certe condizioni, cessate le quali l’amore finisce.
L’amore non è per sempre, ma dura finché dura, se tutto va bene e se conviene a entrambi. Finito ciò, si può tranquillamente tornare a un sano egoismo, fatto di percorsi individuali nei quali non si rischia più nulla di sé.
Marino, per riscattare Lila, è disposto a rischiare la propria vita. Quanti sarebbero disposti a rischiare, se non l’intera vita, almeno un po’ di sé? Il suo è un amore altruista, non convenzionale. E, quando l’amore non è convenzionale, diventa certamente un fatto straordinario.
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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