Lo stile è sobrio, semplice, essenziale. Lo impone lui, Clint, il più grande regista vivente: uno di poche parole. Il tema si poteva prestare a facili misticismi. Se il progetto fosse arrivato nelle mani di M. Night Shymalan, al quale sembrava inizialmente destinato, sarebbe stato probabilmente tutto un altro film. Invece è toccato a lui, Clint Eastwood, il regista più diretto, più trasparente, più classico presente nell’industria cinematografica americana. E lui l’ha trattato in modo laico, senza fronzoli, compromessi, moralismi. Gli esperti direbbero: in modo neoclassico, lasciando respirare la storia, raccontandola attraverso se stessa.
E infatti, non occorrono preamboli, non è necessario creare il pathos, non si perde tempo in complicate costruzioni di situazioni, personaggi e caratteri, perché l’argomento è dannatamente serio e drammatico e riguarda la vita di tutti gli uomini: cioè la morte.
In mano a Clint Eastwood, la morte giunge subito, nei primi cinque minuti del film, giunge violenta improvvisa, anomala come un’onda. È lo tsunami che tutto spazza e travolge, compreso la vita di Marie LeLay (Cécile de France), telegiornalista francese all’apice della carriera, bella, ricca e famosa, che si trova in vacanza in un’isola. L’onda sommerge tutto, compreso la precedente realtà, e la conduce a uno stato di premorte. Dal momento del suo ritorno, nulla sarà come prima.
La sua vita ricomincia a scorrere parallela a quella di miliardi d’individui, tutti accomunati dalla precarietà dell’esistenza, dalla fragilità della vita, dal labile confine posto tra un prima e un dopo che può mutare in un istante. E se per molti – come per Didier (Thierry Neuvic), compagno di Marie – tutto si risolve nella spiegazione della fine della vita come il semplice spegnimento di un interruttore, per molti altri, per la maggioranza, c’è la speranza che non sia la fine, ma soltanto un nuovo inizio.
Per i congiunti, invece, si pone il problema dell’elaborazione del lutto e del dolore per la perdita improvvisa dei propri cari, senza i quali la vita restante può diventare insopportabilmente lunga. E Marie crede che sia successo qualcosa laggiù, mentre era sott’acqua. Ecco perché decide di affrontare l’argomento dando un calcio alla vita di giornalista, all’amore e al successo e scrivendo il libro-inchiesta dal titolo Hereafter.
Marcus (Frankie McLaren) è un adolescente londinese con una madre eroinomane. La morte gli ha strappato via una parte di sé, il fratello gemello Jason (George McLaren) con il quale condivideva tutto, dalla stanza agli escamotage per evitare l’affido a una nuova famiglia da parte dei servizi sociali. Marcus, come la giornalista Marie, sopravvive alla morte, ma suo malgrado. Così, la sua esistenza rimarrà contrassegnata dall’ossessiva ricerca di una spiegazione su cosa vi possa essere dopo.
Dall’altro lato dell’oceano vive George Lonegan (Matt Damon), un operaio di San Francisco che ha il dono (ma lui la considera una condanna) di potere comunicare con l’aldilà. Anche la sua vita è stata segnata dall’esperienza della morte. Anzi, tecnicamente morto, è stato riportato in vita diverse volte. Ma la convalescenza ha lasciato in lui strane allucinazioni. Il fatto è che (sulla semplicità di questa operazione, priva di ogni fanatismo e preconcetto sta la chiave di lettura laica del film), attraverso il contatto con le mani dei sopravvissuti, riesce a scoprire particolari a lui ignoti sulla vita dei parenti defunti, ma anche degli stessi congiunti.
Questa particolare attitudine gli impedisce di avere veri contatti, soprattutto in campo sentimentale in quanto «sapere tutto su qualcuno non è sempre così bello». George, dunque, rinnega la pratica di quest’attività e coltiva, invece, intimamente il gusto dell’ascolto dei racconti di Dickens, del quale è grandemente appassionato.
Sono tre vite slegate tra di loro, vissute anche nella solitudine, a latitudini diverse del globo, ma che miracolosamente si stanno cercando per intersecarsi anche una sola volta, come in una favola del grande narratore Charles Dickens. Sono vite segnate dalla tragica esperienza della morte, come quella dello scrittore britannico, che salvatosi miracolosamente dall’incidente ferroviario di Staplehurst del 9 giugno 1865, morì esattamente cinque anni dopo, senza che il ricordo lo abbandonasse mai. Sono vite di uomini, donne, adolescenti costretti a interrogarsi sulla questione più dolorosa dell’esistenza umana, restando con i piedi piantati nell’aldiquà, ma spinti a gettare uno sguardo anche sul mistero dell’aldilà. Sono vite spezzate, che continuano ad avere un significato solo se messe a nudo, scoperte nell’animo. Vite di uomini, donne, adolescenti che non nascondono il proprio dolore, i propri dubbi, le proprie incertezze. Perché la vita è fragile e risposte in questo mondo non ce ne sono.
Clint Eastwood è tornato. Non è qui per risolvere i dubbi. Non è qui per ricevere applausi o conferme, non cerca l’approvazione: «le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue». Per un pistolero senza nome la morte è sempre quella degli altri. Ma adesso la sua vita ha un nuovo significato: quella di accarezzare l’anima, anche la propria, in vista della morte. Come un novello Dickens, Eastwood non risolve i problemi, non dirime incertezze. Crea storie, cerca un finale. Che sia un traguardo, una tappa, una sliding door che per adesso non si chiude, o addirittura un finale da favola, non è dato di saperlo. Chi vivrà vedrà. Un giorno tutto sarà più chiaro.
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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Annagrazia, sono contento che ti sia piaciuto tanto.
Leggevo da qualche parte che, ogni volta che esce un film di Clint Eastwood, si apre una discussione sul fatto che si possa trattare di un film minore o di un capolavoro.
In realtà nessun regista deve essere ricordato solo per i suoi capolavori. La stessa regola può valere per poeti, musicisti, scultori e così via.
Questo film è semplicemente una perla. Le vere perle sono irregolari ma, unite da un filo, formano una collana preziosa: la vita artistica di un autore che non finisce ancora di stupire ed emozionare.
Hai detto bene: Grande Clint!
L’ho trovato incantevole nella sua delicatezza e sensibilità. Ottimi gli interpreti. Grande Clint:
Cara Rita, anche a me il film ha lasciato dentro un reframing, per cui le immagini mi ritornano prepotentemente alla mente. E la sensazione è dolce e piacevole, una specie di residuo d’amore.
Penso che il motivo sia che il film, a differenza di quanto sostenuto da alcuni, tratti in fondo l’amore.
Certo, non l’amore convenzionale, ma piuttosto quello tra i presenti ed i propri cari perduti: il loro tenero pensiero che possano, in qualche modo, essere ancora nell’aldiquà.
Sono lieto di avere condiviso questo piacere con te.
Bellissima recensione per un film che ho molto amato. E le cui immagini continuo a rivedere. Adesso anche di più.