di Francesco Grano
Trasferitasi in una piccola cittadina di campagna insieme al figlio Chris (James Quinn Markey), Sarah (Seána Kerslak) è intenzionata a iniziare una nuova vita lasciandosi, così, il passato alle spalle. Il posto in cui sono giunti ha però qualcosa di sinistro: non solo corrono strane voci sulla morte non del tutto chiara del figlio di una coppia del luogo, ma nella foresta che confina con la nuova casa Sarah rinviene anche un’enorme e inspiegabile buca a seguito del ritrovamento di Chris, il quale si era smarrito per giocare. Dopo non molto tempo quest’ultimo inizia a manifestare comportamenti insoliti e aggressivi nei confronti della madre la quale, sempre più spaventata, inizia a credere che suo figlio non sia più lo stesso e che tale cambiamento abbia attinenza con la buca nella foresta.
La cinematografia mainstream e quella indie non sono certo prive di quelle produzioni catalogabili nei generi del thriller e dell’horror, capaci di interfacciarsi con quel background teoretico relativo alla branca della psicologia. Lee Cronin, insieme allo sceneggiatore Stephen Shields, lo sa bene; ma nonostante la presenza di prodotti di tal foggia, ha deciso di esordire con Hole – L’abisso (The Hole in the Ground, 2019). Thriller psicologico che, fin dalle battute iniziali, gioca sulla flebile linea di confine che a volte separa il reale dall’irreale, una visione di insieme sana da un’altra decisamente più distorta. Hole guarda ai suoi predecessori filmici con i quali condivide, in parte, le stesse atmosfere e temi. Non sono celati, quindi, i riferimenti (e anche le similitudini) con il Babadook di Jennifer Kent, tantomeno le influenze di un classico come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e il remake firmato da Philip Kaufman Terrore dallo spazio profondo, così come non manca un pizzico di Friedkin, Carpenter e – per certi versi, almeno per quanto concerne le mutazioni corporee en passant – Cronenberg.
Eppure, al di là delle fonti di ispirazione citate (e non) in(direttamente), Cronin è riuscito nell’intento di plasmare la propria creatura senza dovere, per forza di cose, scadere nel già visto. Rimane pur vero che, come già affermato, ci sono forti similitudini con Babadook, con il quale Hole condivide la base di partenza narrativa: una donna/madre da sola, un figlio non più piccolo, ma neanche ancora grande, da crescere e accudire e un nuovo inizio che, in realtà, cela silenti e oscure minacce non ben identificate. Se visto, metabolizzato e analizzato con l’occhio da spettatore smaliziato in cerca di brividi e jump scare facili, allora Hole potrebbe sembrare il classico horror di intrattenimento. Invece, se si decide di intraprendere un percorso analitico più profondo, ci si rende conto di come Hole – L’abisso è un forte dramma psicologico e intimo incentrato sulla figura di una madre che scappa dai fantasmi del passato che la inseguono e da un consorte violento del quale porta le cicatrici sul corpo.
La Sarah interpretata con magnetismo e intensità da Seána Kerslak è una donna forte e, al tempo stesso, altamente fragile, piegata ma non spezzata dai colpi della vita e che, giorno dopo giorno, sprofonda nella paranoia più disperata nel momento in cui l’inspiegabile e il non umano entrano prepotentemente nella sua vita, rischiando così di vedersi portare via l’unica cosa bella che le è rimasta, suo figlio Chris. Hole, quindi, è la paura di quell’altro da sé sepolto laggiù, di quell’inconscio celato e fomentatore di angosce e timori ancestrali e attuali che, nell’opera prima di Lee Cronin, si trasmuta in quel doppelgänger – presente e ben consolidato in tanta letteratura e cinematografia – destinato a essere abbattuto, eliminato, estirpato alla radice in modo tale da riprendere il controllo sul proprio Io raziocinante. Così, l’enorme buca nella foresta non diventa altro che metafora di quell’atavica lotta contro le personali e profonde paure e, parallelamente, figura speculare e allegorica del grembo materno. Tra sprazzi onirici e momenti altamente inquietanti Hole – L’abisso ha il merito di far provare tensione e angoscia allo spettatore senza far ricorso a qualsivoglia truculenza (eccezion fatta per alcuni brevi momenti) o scene splatter. Corroborato da interpretazioni più che buone, una regia pulita e funzionale, nonché una fotografia dai colori cupi capace di creare una giusta e sublime atmosfera, l’opus n. 1 di Cronin, nonostante qualche perdonabile lacuna presente nello script, rappresenta un interessante e, di certo, non banale esordio meritevole, almeno, di una attenta visione.
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