Hugo Cabret e il giocattolo rotto

Parigi, anni Venti, ore 7,00 a.m. Mentre la neve fiocca, alla stazione ferroviaria Montparnasse è già tutto un brulichio di persone che camminano, carrelli e bagagli che s’incrociano, tavoli e sedie di bistrot che si spostano: un immenso formicaio dove uomini, donne, cani e musicisti consumano le loro passioni, preparano affari, coltivano amori, comprano fiori o semplicemente passano alcuni momenti di una fredda giornata sorseggiando un caffè.

Non così per Hugo Cabret, un ragazzino orfano che vive negli appartamenti dormitorio, creati anni fa per i lavoratori della stazione, ma adesso dimenticati. Il compito di Hugo è quello di tenere sincronizzati tutti gli orologi della stazione: un giro di manovella di qua, un’oleata a un ingranaggio di là, la sostituzione di una molla in quell’altro orologio. È un compito delicato, perché gli orologi regalano un ritmo meccanico e preciso alle vite dei frequentatori della stazione, che scorrono come quelle dei tetramini, scendendo dall’alto e trovando l’incastro perfetto tra loro.

Martin Scorsese comincia così il suo fantastico film, con una lunga carrellata in discesa sulla città, un volo radente della macchina da presa che penetra dentro i lunghi corridoi della stazione, per trasformarsi in un interminabile piano sequenza che s’infila tra gambe e sportelli, tra fiori e bicchieri, tra contrabbassi e vassoi, per finire tra l’ispettore Gustav e il suo cane sempre alla caccia di orfani, sospetti di portare scompiglio in quel mondo freneticamente convulso, ma incredibilmente ordinato.

Una vita fin troppo preordinata e tranquilla anche quella di Georges Méliès, dietro il bancone del suo negozio di confiserie et jouets, il quale ha deciso di prendere in trappola il misterioso ladro della stazione, che ruba meccanismi a molla e rotelle dal suo magazzino. Con uno stratagemma Georges Méliès attira Hugo Cabret e lo costringe a confessare, sequestrandogli il suo prezioso taccuino segreto.

Ma tutta la storia del piccolo Hugo è un segreto del quale, probabilmente, neanche lui stesso conosce la chiave. Fatto sta che, per riavere il suo prezioso taccuino, Hugo deve imparare a conoscere meglio l’arcigno e burbero papà Méliès. Sì, papà. Perché Méliès ha già una ragazza orfana in casa: Isabelle, la quale ama la letteratura. Per lei, la storia segreta di Hugo potrebbe essere l’occasione per vivere un’avventura come quella dei romanzi di Verne.

Hugo, del resto, è come uno dei personaggi usciti dalle fiabe di Dickens, sospeso tra sogno e realtà, tra aspirazioni e delusioni, tra traguardi e sconfitte, a cominciare dalla morte del padre, il quale gli ha lasciato un automa capace di scrivere, ma la cui carica deve  essere data per mezzo di una chiave a forma di cuore.

Dunque, chi gli potrà dare il pezzo mancante? Perché il segreto dei meccanismi è quello di trovare il pezzo giusto che si possa incastrare perfettamente negli altri. Quella è la parte più difficile per chi voglia riparare i giocattoli rotti o le vite spezzate.

Ora, noi tutti adoriamo i segreti, ma il difficile è custodirli per sempre. Questo è il motivo per cui non si può spiegare il misterioso intreccio che lega storie fantastiche con quelle che traggono origine da vite realmente vissute, tra lo stupore per un treno che arriva alla stazione e il genio dei fratelli Lumière, tra i viaggi sulla Luna e le lancette dell’orologio in un film di Buster Keaton.

Forse il segreto è nascosto proprio nei film: «Ti sei mai chiesto dove nascono i sogni? Allora guardati intorno!». Ci sono uomini che hanno capito che il cinema ha il potere di catturare i sogni. Ce ne sono altri, le cui vite sono come quelle di un giocattolo rotto.

«Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!».

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Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani

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