Il genere gangster movie ha sempre fondato le sue fortune su personaggi belli e dannati che, sotto la luce dei riflettori della storia narrata, diventano eroi. Allora perché il caso Vallanzasca – Gli angeli del male di Michele Placido fa ancora discutere e rinfocola polemiche, a distanza di quattro mesi dalla presentazione a Venezia e al momento dell’uscita nelle sale italiane?
Intanto cominciamo col dire che Renato Vallanzasca, quello vero, è un criminale che, autore di numerosi delitti e rapine, è stato condannato all’ergastolo. Dal 2010, dopo avere scontato oltre quarant’anni di carcere, gode di un permesso speciale per lavorare durante le ore diurne al di fuori delle mura carcerarie.
E se il carcere, pure quello duro e a tempo indeterminato ha lo scopo (virtuale) di reinserire nel contesto sociale le persone che hanno commesso crimini, non dobbiamo dimenticare che tra i crimini commessi da Renato Vallanzasca ancora turbano e commuovono le uccisioni di quattro poliziotti, un medico e un impiegato che hanno incrociato le loro vite con quelle di un bandito e non hanno potuto optare per altra condanna che la morte. Sei omicidi, che diventano sette, se si aggiunge quello di un collega rapinatore di René, reo di averlo tradito.
Detto questo, ci dobbiamo chiedere perché il cinema, in particolare, tra le arti sia quella che maggiormente è stata da sempre responsabilizzata, colpevolizzata di enfatizzare più o meno accentuatamente le gesta di personaggi che rappresentano stereotipi negativi o che – addirittura – possano incarnare la rappresentazione del male.
Senza che sia necessario dilungarsi in noiosi approfondimenti, basti dire che le sceneggiature di fiction tradizionali s’incentrano soprattutto sulla figura dell’eroe. L’eroe non è soltanto quello capace di nobili e mirabili gesta, non è solo il principe azzurro che lotta contro il drago, ma talvolta anche l’uomo comune che sfida il traffico cittadino o le ingiustizie quotidiane.
In una sceneggiatura di tipo classico, alla fine del percorso, l’eroe ritorna a casa. Il ritorno a casa rappresenta l’epilogo della storia, la parte finale della parabola che – in termini di vita reale – coincide con la pensione o la morte serena dell’uomo comune. Il ritorno a casa rappresenta comunque un premio nei confronti dell’eroe che tanto ha sofferto e altrettanto è maturato nel corso della storia.
Non solo: il protagonista è colui verso il quale maggiormente è rivolto l’occhio della macchina da presa. E noi sappiamo che il contatto visivo è la principale via di seduzione per gli uomini moderni. Dunque, il protagonista è colui che affascina e diventa la fonte del mito, almeno per tutta la durata del film.
Ma noi sappiamo che anche il film più realistico giunge alla fine e a quel punto si esce dalla sala: e meno male, se no le nostre case e le nostre strade sarebbero popolate da fate, cavalieri e personaggi del passato. Allora qual è il fatto? Perché Vallanzasca allarma e inquieta, quando Hitler è messo alla berlina persino su youtube, attraverso la rivisitazione del doppiaggio del film La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler?
Innanzi tutto Renato Vallanzasca è ancora in vita, mentre Hitler e altri antieroi o pericolosi criminali sono stati abbondantemente sopravanzati dall’incedere della Storia. Inoltre, nelle sceneggiature tradizionali viene mostrata l’ascesa e la caduta dell’antieroe, mettendone in risalto gli aspetti controversi della personalità, analizzandone il percorso formativo nel male, la caduta nel baratro della violenza e giustificandolo e redimendolo, infine, con la morte. Nel caso Vallanzasca non è presente il percorso redentivo o di morte dell’antieroe.
In una sceneggiatura tradizionale si offrirebbe all’antieroe la possibilità di invocare le attenuanti generiche, di porre l’estrema difesa. Invece, lo stesso Vallanzasca, sia nel film che in un’intervista precedentemente rilasciata, ammette di non essere una vittima della società, di non poter colpevolizzare nessuno per la sua discesa negli inferi, di non sentirsi cattivo: «Ho soltanto il lato oscuro un po’ pronunciato».
Dunque si tratta di un film non politicamente corretto, che andrebbe opportunamente controbilanciato da un’analisi più serrata e stringente sul percorso formativo che può portare un giovane ragazzo al salto verso la criminalità, o allo sviluppo estremo di quello che lui stesso definisce il lato oscuro della personalità.
Renato Vallanzasca ha chiarito perché non abbia mai chiesto perdono ai familiari delle sue vittime: «Una mia dichiarazione in tal senso suonerebbe come un tentativo di arruffianamento per ottenere vantaggi ed io non mi prostituisco neppure per uscire di galera. Qualunque pentimento, con relativo fardello di rimorsi, è una questione talmente intima e personale che nessuno, tanto meno la legge, ha diritto di sindacare, esclusi i familiari delle vittime, gli unici ad avere diritti in questo senso».
E sinceramente sembra poco perché si possa dimenticare, ma soprattutto per permettere a quei familiari di elaborare il loro personale percorso del dolore.
Molte sono le critiche ricevute dal film che è stato accusato di non avere approfondito i riferimenti al contesto sociale e politico dell’Italia di quegli anni di piombo, preferendo spettacolarizzare gli eventi che ruotano attorno all’uomo, al ladro gentiluomo, al killer dagli occhi azzurri e profondi che fecero innamorare migliaia di casalinghe, le quali recapitavano in carcere le loro missive d’amore.
In realtà il Renato Vallanzasca del film, Kim Rossi Stuart, è un perfetto stereotipo di gangster freddo e spietato e Valeria Solarino, una novella Florinda Bolkan, l’ideale pupa del gangster. Kim Rossi Stuart incarna perfettamente il ruolo del malvagio, doppio e feroce antieroe da Romanzo criminale che, pur in mezzo a tutte le sue contraddizioni, non merita di essere assolto. Un personaggio fin troppo scuro e determinato, fin troppo magnificamente esaltato dall’algida fotografia del film, inserito in una perfetta cornice di film d’azione che – se non fosse tutto così maledettamente vero – potrebbe essere una delle migliori pellicole italiane degli ultimi anni.
Qualcuno ha detto: non si può censurare la conoscenza dei fatti, per quanto sgradevoli siano. Dobbiamo correre il rischio di conoscerli e di valutarli per quello che sono. Alla fine, però, diamo la possibilità alle opinioni opposte di essere manifestate con la stessa misura e forza. Attendiamo, dunque, un film sulla storia di quelle sei o sette famiglie silenziose che, dopo oltre quarant’anni, attendono ancora di udire il suono di un campanello, di un citofono o di un tintinnio di chiavi che non potranno sentire mai più.
Per quanto riguarda le polemiche sulla figura del criminale, il mito di Vallanzasca consideriamolo morto e sepolto. Lui stesso ha dichiarato: «Nessuno meglio di me sa dissacrare i miti. A partire dal mio. Che mito è quello di uno che ha trascorso due terzi della propria vita in galera?».
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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Bella analisi, proprio bella!
Grazie!
il cinema deve raccontare storie, non si deve chiedere altro.