di Elisa Scaringi
Il figlio di Saul non ha un nome: rappresenta la figliolanza quale legame spirituale tra un adulto e un bambino. Il figlio di Saul non ha vita: nel suo corpo morto viene racchiuso il pudore di milioni di essere umani uccisi. Il figlio di Saul non è un film sulla Shoah: il suo è il punto di vista del lavoro duro all’interno di un campo di concentramento nazista.
Gli occhi sono quelli di un uomo, Saul appunto, che guida poveri cristi attraverso le vie del crematorio. Come Caronte alle porte dell’inferno, Saul è l’operaio della morte. Anche lui destinato alla fine come tutti gli altri. All’interno di spazi angusti che lasciano senza respiro, Saul trova un corpo ancora in vita. E lo guarda esalare l’ultimo respiro. Segno che non tutto è perduto. In quel ragazzo trova un figlio: ora finalmente può guardare la vita, all’interno di un capanno di morte.
E la vita, si sa, dà coraggio. Saul infatti è deciso a preservare quel corpo, a non lasciarlo bruciare insieme con gli altri. Quel corpo che è riuscito a sopravvivere alla camera a gas. Saul trova la luce attraverso un’esistenza che sembrava profondamente buia. Tutto allora passa in secondo piano: la rivolta dei sonderkommando (deportati obbligati a collaborare con le SS), la fatica della reclusione, il sangue che scorre continuamente, il sospetto dei compagni di sventura.
I suoi occhi sono solo per il figlio preso sulle spalle, e per la sua sepoltura.
Il regista László Nemes, sebbene sia alla sua opera prima, riesce perfettamente in questo, attraverso il formato in 4:3 e mediante riprese molto strette, che non lasciano spazio al campo lungo. La forma cinematografica dà, in questo film, un senso profondo di claustrofobia. Ci rende l’oppressione dell’ambiente e l’odore acre del sangue; la fatica di incenerire altri corpi e la dura lotta per la sopravvivenza.
Il figlio di Saul, per tutto questo, non è il solito film sui campi di concentramento nazisti. Anzi, si potrebbe definirlo come un film d’eccellenza sull’argomento (non a caso candidato all’Oscar come migliore film straniero, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes e del Golden Globe). Manca infatti una trama romanzata e un intreccio ad ampio respiro. C’è piuttosto il punto di vista di un uomo che vive il campo di concentramento fin nelle sue profondità più oscure, e mai viste su uno schermo cinematografico. La macchina da presa si concentra sul suo sguardo e su ciò che esso guarda, sulla sua coscienza di uomo soffocato dai fumi del sangue e salvato dall’innocenza della morte.
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