Gli spettatori entrarono in sala e il cartone animato Z la formica ebbe inizio. Tra loro uomini, donne, ma soprattutto bambini:
«Per tutta la vita ho vissuto e lavorato in una grande città. Il che, ora che ci penso, è piuttosto un problema, visto che mi sento sempre a disagio tra la folla. Sul serio, ho questa paura degli spazi chiusi. Sì, tutto mi fa sentire in trappola, in continuazione. Sì, sì, mi dico sempre che ci deve essere qualcosa di meglio là fuori, ma forse penso troppo. Ed io credo che tutto risalga al fatto che ho avuto un’infanzia molto ansiosa. Sa, mia madre non aveva mai tempo per me. Insomma, quando si è il figlio di mezzo in una famiglia di 5 milioni, non ricevi alcuna attenzione. Voglio dire: com’è possibile? E ho sempre avuto questa storia dell’abbandono… Sapesse come m’affligge! Mio padre era fondamentalmente un fuco, come le ho detto, e spiccò il volo quando io ero ancora una larva. E il mio lavoro, poi… Non mi faccia incominciare, perché mi irrita molto. Vede, io non sono tagliato per fare l’operaio, glielo dico subito, io mi sento fisicamente inadeguato. Io, in tutta la mia vita, non ho mai sollevato qualcosa che andasse oltre 10 volte il mio peso corporeo. E, arrivando al dunque: maneggiare la terra, ecco, non è la mia idea per una carriera gratificante. Poi tutta questa colata di entusiasmo per il super organismo che, sa, non posso capire. Ci provo ma non la capisco! Insomma, io dovrei fare tutto per la colonia e che ne è dei miei bisogni? Che ne è di me? Insomma devo credere che esista un posto là fuori migliore di questo, o devo raggomitolarmi in posizione fetale e piangere? L’intero sistema mi fa sentire insignificante».
«Eccellente Z! Hai fatto un grosso passo in avanti!».
«Sul serio?».
«Sì, Z: tu sei insignificante!».
Z è un semplice operaio della grande colonia di formiche: il suo lavoro consiste nello scavare la terra e trasportarla. Ogni giorno la stessa storia, ogni giorno la stessa vita, ogni giorno sempre tutto uguale. E Z vive il suo stato di membro della comunità con evidente disagio, non riuscendo a integrarsi in modo completo e soddisfacente, come capita invece ai suoi simili. Insomma, è un disadattato.
Ma, in fondo, è la stessa minestra per tutti! Già dalla nascita, i nuovi membri della colonia sono destinati – sulla base delle caratteristiche fisiche – a ricoprire uno dei due (unici) ruoli sociali possibili: operaio o soldato. Per dirla tutta, la vita degli operai prevede pure momenti di svago e di relax piacevoli, come quello di sperare in stimolanti incontri tra operai e operaie al riposo dai turni di lavoro. Ma quello che proprio non va giù a Z è esattamente il fatto che la vita scorra così preordinata e tranquilla, inscatolata e segnata dal tempo delle regole comunitarie. Perché tutto si svolge esattamente secondo il ruolo assegnato a ogni membro e l’interesse del gruppo prevale sempre su quello dei singoli.
Anzi, poco importa chi effettivamente viva o muoia – così la pensa il generale Mandibola – perché il sacrificio dei singoli, come nel caso di una guerra, può unire ancor di più la comunità. Convinto di ciò, il generale spinge il suo popolo verso una guerra pesante e distruttiva, accentrando il potere su di sé, certo che la Storia lo giudicherà con uno sguardo benevolo: «Un soldato sa che la singola vita di una formica non conta». Tutto secondo copione, sul solco di un film visto e rivisto, che è quello della nostra vita.
Ma una formica anziana rivela a Z l’esistenza di Insettopia: un posto migliore, dove si può vivere da formiche libere, le strade sono pavimentate di cibo, nessuno che ti dica cosa fare, niente guerre, niente colonia. Una storia da svitati, si direbbe.
«Insettopia… Sarebbe bello se fosse così semplice!». «Z, non smettere di sognare», gli suggerisce Weaver.
Così, un po’ per la ribellione che lo anima e lo porta a contrastare quella massa di falliti, microcefali zombie che si arrendono a un sistema oppressivo, un po’ per l’attrazione che lo lega all’irraggiungibile principessa Bala, promessa sposa al generale Mandibola, Z propone al suo fraterno amico-soldato Weaver un’inversione dei rispettivi ruoli: per un giorno Weaver sarà un operaio e Z un soldato. Da lì avranno origine una serie di circostanze per cui l’insignificante e piccolo Z diventa un eroe di guerra, la sua inestinguibile sete di miglioramento lo conduce alla ricerca di Insettopia e, passando attraverso avventure e pericoli, si trasforma in personaggio mitico e leader carismatico della comunità, che così si libera dal dittatore Mandibola.
Basterà, dunque, una singola microscopica sovversione per mettere in crisi il sistema che tutto preordina e regola. Non tanto perché le regole ferree riescano effettivamente a produrre risultati buoni per le formiche, ma perché le regole sono scritte a misura di una popolazione che intende ubbidire. E ubbidire è tanto più facile quando le regole sono rigide e sicure, tanto quanto lo è il controllo di quel popolo, quando il consenso è basato sulla condivisione delle opinioni di massa.
Il sistema-potere, infatti, dialoga a doppio filo con il sistema-società di massa perché «a mano a mano che i cittadini divengono più eguali e somiglianti, la tendenza di ognuno di essi a credere ciecamente in un certo uomo o in una certa classe diminuisce; aumenta invece la disposizione a credere nella massa mentre sempre più l’opinione comune guida il mondo»[1].
Z la formica è un operaio. Non appartiene alle élites culturali e aristocratiche, eppure rinnega quella massa sottomessa e adattata, perché pensa e sogna un mondo migliore: fuori dalla colonia ci deve pur essere una qualche Insettopia! Ed è il forte richiamo di un mondo migliore che lo porta alla scoperta del desiderio della libertà. Z, come tutti i rivoluzionari, appartiene al popolo, non alla plebe.
Infatti, «la plebe è composta da tutti i declassati. In essa è rappresentata ogni classe della società. Perciò è così facile confonderla col popolo, che pure comprende tutti gli strati. Mentre nelle grandi rivoluzioni il popolo lotta per la guida della nazione, la plebe reclama in ogni occasione l’uomo forte, il grande capo. Essa odia la società, da cui è esclusa, e il parlamento, dove non è rappresentata. I plebisciti, con cui i dittatori moderni hanno ottenuto così eccellenti risultati, sono quindi un vecchio espediente degli uomini politici che capeggiano la plebe»[2].
Del resto, diceva uno che non parlava mica alle mosche, «ci roviniamo a seguire l’esempio degli altri. Solo stando alla larga dalla folla potremo salvarci […] La folla è la peggiore conferma. Chiediamoci, allora, cosa sia meglio fare e non quale sia il comportamento più comune, cosa ci faccia ottenere una felicità duratura e non ciò che riscuote l’approvazione del volgo, pessimo interprete della verità; e per volgo intendo chi indossa la clamide al pari di chi porta la corona»[3].
Trovare Utopia non richiede sforzi sovrumani, non è impossibile e, se anche lo fosse, se anche Utopia non esistesse, la ricerca stessa di essa lastrica il pavimento che conduce diritto alla strada della libertà. Il solo sforzo di mettersi in viaggio vale la pena del risultato ottenuto. Lo stesso Thomas More, che progettò L’Utopia per l’immaginario fantastico dei viaggiatori desiderosi di conoscere un mondo migliore, dovette sacrificare qualcosa di sé[4].
Nella colonia delle formiche tutti gli individui tendevano a conservare il loro status, incapaci di vedere oltre le logiche del consenso di massa. Non così l’insignificante Z, il piccolo operaio che, grazie al suo spirito di novità, assunse dei rischi per ottenere un mondo migliore.
Roba da film! «Forse nel fatto stesso che questi due elementi, la preoccupazione della stabilità e lo spirito di novità, siano divenuti due concetti opposti nel pensiero e nella terminologia politica – in cui l’una viene identificata come conservatorismo e l’altro viene acclamato come se detenesse il monopolio del liberalismo progressista – dobbiamo riconoscere uno dei sintomi della nostra sconfitta»[5], commentarono due anziani professori all’uscita del cinema.
Non sarà così per sempre, disse un insignificante ragazzetto tra la folla: «L’uomo non è soltanto un braccio come dice Taylor, e non è soltanto un cuore come dicono le Relazioni Umane. L’uomo è soprattutto una mente, un progetto, una libertà»[6].
E poi li chiamano cartoni animati!
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Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
[1] Alexis de Tocqueville, La democrazia in America.
[2] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo.
[3] Seneca, Vizi e virtù dell’animo umano.
[4] «Eppure a condurre a termine questa cosa così facile, una difficoltà c’era, che cioè per le mie faccende il tempo si era ridotto a men che nulla […] continuamente fuor di casa tutta la giornata a disposizione degli altri o, quel che poco che avanza, per i miei; per me, cioè per i miei studi, non resta nulla. […] In mezzo a queste occupazioni che ti vado dicendo, mi scappan via i giorni, i mesi, gli anni. Quando dunque prendo la penna in mano? Già: non ti ho detto nulla sinora del sonno e nemmeno del vitto, che per molti fa perdere non meno tempo del sonno, il quale alla sua volta fa perdere quasi la metà della vita. Io invece non dispongo, per me, che del tempo che rubo al sonno e al vitto. Troppo poco! Ma è pur qualcosa! Così son riuscito una buona volta, se pur lentamente, a finir l’Utopia e te la mando». (Thomas More, Lettera a Pietro Gilles).
[5] Hannah Arendt, Sulla rivoluzione.
[6] Michel Crozier in Giuseppe Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo.
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