di Francesco Grano
Stati Uniti, 1962. Elisa (Sally Hawkins) lavora come addetta alle pulizie all’interno di un centro di ricerca aerospaziale. Affetta da mutismo, Elisa trascorre la sua esistenza in un’ordinaria routine, intervallata dalla compagnia dell’amico e vicino Giles (Richard Jenkins) e dagli sproloqui della collega Zelda (Octavia Spencer). Una notte, durante uno dei tanti turni di lavoro, Elisa e Zelda assistono all’arrivo nei laboratori di una strana capsula contenente qualcosa e di Strickland (Michael Shannon), agente governativo addetto alla sicurezza del misterioso involucro. Curiosa di sapere cosa si nasconde dietro tale stranezza, Elisa si intrufola nel laboratorio, trovandosi di fronte a una bizzarra creatura acquatica antropomorfa (Doug Jones) catturata da Strickland in Sudamerica e, ora, soggetto per esperimenti. Lentamente e di nascosto Elisa instaura un rapporto di fiducia con la creatura che, giorno dopo giorno, si trasforma in sentimento.
A distanza di due anni e mezzo dalla ghost story gotica Crimson Peak, Guillermo del Toro è tornato scrivendo e dirigendo la sua decima opera cinematografica, La forma dell’acqua – The Shape of Water (The Shape of Water, 2017). Distanziandosi momentaneamente dal suo genere (prevalentemente) di appartenenza, quell’horror apprezzato nei suoi lavori come Mimic, Blade II e nel già citato Crimson Peak, il regista messicano con La forma dell’acqua racconta una storia che pesca a piene mani e strizza l’occhio a quella sci-fi degli anni Cinquanta e Sessanta, con particolare riferimento al cult Il mostro della laguna nera. Tuttavia La forma dell’acqua non si limita ad essere – solo ed esclusivamente – una pseudo rivisitazione (o remake) dell’horror fantascientifico del 1954, piuttosto ne (ri)scrive ex novo il contenuto, mantenendo qualche elemento della pellicola fonte di ispirazione e, parimenti, facendo tabula rasa di tutto il resto.
Le vicende sono ambientate in un contesto sociopolitico teso e instabile, ovvero quell’inizio anni Sessanta con la guerra del Vietnam in pieno svolgimento e le cui immagini scorrono sui televisori messi in bella mostra nelle vetrine dei negozi di elettronica; sono anche gli anni del più silenzioso e temuto conflitto dell’intera storia dell’umanità, quella Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, uno scontro di forze che è stato capace di creare paure e paranoie sullo sfondo variegato (e inquietante) sul quale si muovono lo spettro dell’olocausto nucleare, la corsa agli armamenti e alla conquista dello spazio, senza dimenticare spionaggio, doppi e tripli giochi di cellule dormienti. La forma dell’acqua non solo ricostruisce, con perizia e dettagli millimetrici, l’apparato storico bensì ne contestualizza gli aspetti societari, come quello dell’America scissa in due (e ancora in preda a xenofobia e razzismo), di quella Nazione fatta da una parte di casette a schiera dai colori pastello, famiglie felici, automobili di lusso, borghesia e dall’altra di lavoratori e proletari che si muovono e vivono in un mondo dai colori più freddi, che offre poco ma – non per questo – meno interessante. In questo corollario di usi e costumi dei Sixties, del Toro permette alla storia principale di prendere le mosse, infatti La forma dell’acqua è, ancor prima di essere la messa in scena di una decade del passato, la narrazione di un incontro tra esseri soli, ai margini eppure legati, in qualche modo, all’acqua, a uno dei quattro elementi (insieme a terra, aria e fuoco) che formano la materia e che, qui, ricopre la sua doppia valenza: costituente di tutte le forme di vita e nucleo di origine della vita stessa.
Il primo face to face tra Elisa e la creatura acquatica rappresenta la collisione tra due mondi, quello degli umani e quello di qualcosa di diverso dall’umano, di differente rispetto agli uomini ma che, nonostante l’aspetto agli antipodi, presenta similitudini. Sia Elisa sia la creatura sono gli unici esseri che, nonostante la distanza biologica li divida, riescono a capirsi e, così, a comunicare. Il mutismo della protagonista combacia con quello della creatura, capace sì di replicare i gesti visti ma – allo stesso momento – incapace di proferire, di pronunciare parola alcuna. Eppure, in questa (in)comunicabilità, i due si capiscono, si intendono, si amano. La forma dell’acqua, oltre ad essere un fantasy d’autore, è una emozionante (e profonda) fiaba sull’universalità dell’amore, di quel sentimento privo di confini, libero da contrasti e differenze tra lingue, religioni, colore della pelle, etnia e provenienza. L’amore, quello posto da del Toro al centro di La forma dell’acqua, non conosce barriere né tantomeno limiti: il sentimento che nasce tra Elisa e la creatura non solo diventa metafora – mai quanto oggi attualissima – sulla capacità di andare oltre le convenzioni che la società – spesso – impone ma, oltre a ciò, invita a non demordere in quella ricerca dell’altro da sé, di quella metà atta a completare chiunque e, così, permettere di uscire da quella solitudine che a volte si insinua all’interno dell’esistenza. In questo La forma dell’acqua si avvicina al meraviglioso (e sempre di del Toro) Il labirinto del fauno: lì Ofelia si inoltra in un mondo di fantasia per sfuggire agli ultimi orrori provocati dagli echi della guerra civile della Spagna franchista; analogamente Elisa, tra le braccia della creatura, si affaccia alla possibilità (e alla sicurezza) di una fuga da una realtà atona e in preda alla violenza ancestrale e brutale dell’uomo stesso.
Se la storia d’amore ricopre una buona porzione nel decimo lungometraggio dell’autore di La spina del diavolo, nondimeno La forma dell’acqua offre altri spunti di riflessione nonché critiche dirette a quell’assolutismo – in alcuni casi – forsennato e privo di sensatezza della ricerca scientifica, disposta a tutto pur di permettere alla tecnologia il suo avanzamento e sviluppo per conquistare nuovi campi. Una scienza che, nonostante ciò, in La forma dell’acqua non si limita ad essere rappresentata esclusivamente con accezione negativa, in modo tale da far affiorare quel sottofondo ecologista con lo scopo di far capire l’importanza della preservazione della natura e del rispetto verso essa poiché, nonostante le “stranezze” che la Madre Terra può riservare, alla fine i “mostri” non sono le inedite bizzarrie dell’evoluzione, piuttosto, se di veri mostri si deve parlare, gli uomini nella loro ottusa cupidigia di potere contornata dalla sete di conquista.
Opera sfaccettata nella sua stessa commistione di generi e permeata da un certo citazionismo filmico che la trasforma anche in un esempio semplice e diretto di metacinema, La forma dell’acqua è un atto di vita che possiede tutti i crismi per potersi affermare come fresca e immensa opera cinematografica: tra sequenze oniriche e scene più intime e introspettive legate da un nostalgico e dolce leitmotiv, essa può definirsi una mirabilis appartenente, in toto, a quell’enorme macchina chiamata Cinema, capace di incantare e sconvolgere, di emozionare e far riflettere poiché il cinema, in fondo, è simile alla vita. Sia l’esistenza sia la Settima arte sono sempre variegate e sorprendenti.
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