di Elisa Scaringi
Lo chiamavano Jeeg Robot è tornato nelle sale. E con esso il sentore che nel cinema italiano qualcosa sta accadendo. Dopo l’Oscar a Sorrentino per La grande bellezza, Roma torna protagonista, vincendo non a caso sette David di Donatello. E lo fa mostrando di sé la faccia meno benestante, eppure più veritiera. Le periferie (qui nei panni di Tor Bella Monaca) diventano lo scenario per un evento fuori dal comune, raccontato con rara maestria dal suo regista Gabriele Mainetti.
Nel corso di tutto il film una domanda impensierisce lo spettatore più fine: che genere sto guardando? Un cult godereccio alla Quentin Tarantino oppure un superhero movie dagli strabilianti effetti speciali? La risposta più ovvia sarebbe sicuramente una: non saprei. Lo chiamavano Jeeg Robot non emula infatti nulla della tradizione americana. Anzi, sa prenderne gli insegnamenti migliori per plasmare qualcosa di assolutamente originale, proprio come accade ai grandi scrittori: il modello c’è, ma non si vede, perché viene plasmato attraverso le parole. Così fa anche Gabriele Mainetti. Usa i suoi maestri per creare qualcosa di realmente innovativo: un superhero all’italiana. Un po’ come fece Sergio Leone con il genere spaghetti-western.
Dopo i primi esperimenti (Basette e Tiger boy), Lo chiamavano Jeeg Robot non è la mera trasposizione di un fumetto o cartone che sia, né tanto meno una brutta caricatura di personaggi quali Superman o l’Uomo Ragno. Si tratta invece di un super eroe dalla faccia italianissima (quella di Claudio Santamaria, perfetto nella parte del ragazzo asociale, burbero all’apparenza, ma buonissimo nell’animo), che non si monta la testa, rimanendo saldamente legato al suo essere un uomo di periferia: non abbandona la casa unta e bisunta, continua ad accumulare yogurt gialli in frigorifero, inciampa ancora in dvd porno di ultima categoria. Anche la sua fuga sarà a pochi metri dal quartiere (un hotel sulla Via Casilina) e la sua mimesi avverrà nelle più torbide acque del Tevere. Senza contare la donna di cui si innamora: quella che avrebbe dovuto essere un’eroina bella e un po’ diva, diventa qui la ragazza di periferia, abusata da un padre padrone e affetta da problemi psichici che, però, non le impediranno di sostenere il protagonista nel suo viaggio verso la consapevolezza dei propri poteri.
Una sorta di origin story, dunque, nella quale però tutti gli elementi fondamentali (il ragazzo buono che si trasforma, la ragazza-fidanzata che lo scopre, il cattivo incallito che tenta di impadronirsi del potere) sono raccontati con gli occhi della periferia romana più profonda, quella dimenticata e senza speranza, che riesce, tuttavia, a dare i propri natali a un super eroe nostrano.
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