di Francesco Grano
Nell’anno 2022, sotto l’egida dei “Nuovi Padri Fondatori”, gli Stati Uniti d’America vivono il periodo più roseo della loro storia: economia stabile e lontana da crisi monetarie, tassi di disoccupazione ai minimi storici, criminalità totalmente scomparsa. Sembrano essere (ri)nati gli Stati Uniti, una nuova Nazione all’insegna di un american way of life “(re)born”. Ma dietro l’apparente perfezione di una Nazione solida e impeccabile si nasconde ben altro, perché per vivere all’interno di una società (all’apparenza) perfetta, vi è sempre un prezzo da pagare. Per poter permettere ad ogni cittadino di godere dei nuovi benefits della Neo-Nazione, il Governo autarchico dei Nuovi Padri Fondatori ha imposto, una volta l’anno e per una durata di dodici ore, “Lo sfogo”, una notte in cui ogni tipologia di crimine, ogni efferatezza verso il prossimo (tranne il personale di pubblica sicurezza e governativo) è concessa. Le regole del “gioco” sono semplici: chi ha il potere, il denaro (in questo caso la media/alta borghesia) sopravvive, chi invece si trova negli ultimi gradini sociali, relegato tra i reietti, si autoproclama vittima sacrificale per la violenza repressa.
Nella prima categoria rientrano i Sandin, agiato nucleo famigliare che può permettersi di trascorrere le dodici ore al sicuro nella propria abitazione. Ma durante questa lunga notte qualcuno busserà alla loro porta, per chiedere riparo e salvezza. Sarà proprio questo evento imprevisto, legato al gesto altruistico del figlio minore di casa, a far sprofondare le vite famigliari in un inferno in Terra perché, molto presto, il nuovo arrivato verrà reclamato dal di fuori…
Lungometraggio inquietante e disturbante che, in parte, richiama alla memoria The Strangers (id., 2008), La notte del giudizio (The Purge, 2013), opera prima di James DeMonaco (sceneggiatore passato alla regia) mette in rilievo e in luce, fin dalle battute iniziali, quella che è la struttura dicotomica e portante dell’intero film: da una parte ci si trova di fronte ad un saggio dal sapore prettamente socio-antropologico immerso in un tessuto altamente politico; dal versante squisitamente e direttamente registico e filmico, l’opera di DeMonaco si installa come una (quasi) novità nel panorama cinematografico statunitense.
La società all’interno de La notte del giudizio mostra, in un primo momento, come sia possibile vivere all’insegna della più pura perfezione, in un mondo ove le “cose brutte” sono scomparse, tenute lontane dai cittadini modello. Come ben si sa, ogni medaglia ha due risvolti poiché, per raggiungere (e mantenere) lo status in cui gli Stati Uniti ora versano, bisogna consentire, permettere di “sfogare” gli istinti violenti di una società che in qualche modo ha subito una repressione quasi consenziente seppur condizionata. La neo-società americana si trova costretta ad una sorta di “baratto”: “io do qualcosa a te e tu dai qualcosa a me”. In questo caso i misteriosi e enigmatici Nuovi Padri Fondatori hanno donato la possibilità di una semi-perfezione nazionale, per la quale, in cambio, pretendono delle vite, del sangue che venga versato per le strade almeno per una notte su 365.
Non è difficile, quindi, rintracciare la visione che il regista intende trasmettere allo spettatore, ovvero quella di due livelli, uno basso e uno alto e – nel mezzo – una spietata e univoca certezza: chi sta in alto vince chi sta in basso, invece, perde. Qui emerge l’intenzione di esplicare la “politica” del distopico (ma non fantascientifico) futuro della terza decade del XXI secolo: i partecipanti al massacro non fanno altro che “ripulire” le città da quelle persone che, appartenenti alle classi sociali più basse, sono impossibilitate a contribuire al benessere dell’intera Nazione. È attraverso la famiglia dei Sandin che il conflitto societario (le domande che i membri del nucleo famigliare si pongono sulla fine che faranno le persone che non possono permettersi un riparo sicuro), la netta distinzione tra ricchezza e povertà vengono consegnati allo spettatore. All’interno della loro casa-fortezza, munita dei migliori sistemi di allarme, videosorveglianza e difesa, credono di essere immuni dalla macelleria perpetrata nelle strade. Nonostante l’apparente “blindatura” dal mondo esterno, ogni sistema ha inevitabilmente le proprie falle, come ammette lo stesso James Sandin (Ethan Hawke), il capofamiglia nonché l’esperto dei sistemi di sicurezza, dato che lui stesso è a capo di una società imprenditoriale che si occupa di ciò.
Ma la falla, il bug qui non è elettronico o informatico, ma fatto, composto di carne e ossa e una mente pensante. È l’altruismo del figlio minore di James che ribalta la situazione nel peggiore dei modi, e i primi interrogativi cominciano a spuntare fuori: “consegnare l’intruso, la vittima sacrificale e così salvare l’intera famiglia, oppure, oltre le proprie di vite, salvare anche quella di un innocente?”.
È da questo conflitto etico e morale che i protagonisti de La notte del giudizio attuano un percorso decisionale che li porterà verso una propria mutazione permeata da una scelta cinica ma realista: uccidere per non essere uccisi. È qui che i due punti più sopra menzionati, convergono, poiché il regista unisce l’aspetto sociale e umano a quella che è la filosofia dei generi cinematografici: thriller, horror, slasher si fondono in un puro psycho-thriller notturno di sopravvivenza. DeMonaco conosce ed ha assimilato alla perfezione l’estetica e i meccanismi dell’assedio di matrice carpenteriana, dando il via così ad un sadico e sanguinoso gioco al massacro tra le mura domestiche-borghesi ormai violate. Non c’è videocamera di sorveglianza, non c’è monitor che può assicurare la sicurezza e prevedere le mosse dell’invasore (diversamente da come ha insegnato Orwell con 1984). Gioca con il buio il regista, con gli effetti “vedo non vedo” trasformando, così, ogni angolo buio, ogni stanza o antro in una potenziale trappola mortale. L’unico modo per sopravvivere allo “sfogo” è quello di fare appello esclusivamente alla forza bruta e violenta, capace di esplicare dall’interno all’esterno di ogni singolo personaggio quegli istinti animaleschi e brutali sopiti da tempo.
Se Stanley Kubrick con Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) aveva dato il via ad un’esplicita riflessione antropologica sulla violenza della (e nella) società, anche in La notte del giudizio tale riflessione trova il suo spazio. Diversamente dall’opera kubrickiana che, in qualche modo, mostra una possibile via di fuga dall’incubo violento della società futurista, l’abbattimento delle barriere, dei limiti “tabù” imposti dal nuovo Governo americano, annuncia a chiare lettere il messaggio di fondo insito nel tessuto filmico dell’opera di DeMonaco, ovvero che la scarica violenta e “liberatrice” dello “sfogo” serve proprio per mantenere quell’equilibrio, quella stabilità raggiunta in tutti i campi (economico, politico, sociale). La famiglia Sandin abbraccia la lotta, la metaformosi animalesca in cui, volenti o no, sono costretti. Ma il vero pericolo si dimostra celato non dietro le maschere inquietanti indossate dal sadico gruppo che fa irruzione nelle mura domestiche, né risiede nelle persone provenienti (usando un termine leviano) “dal basso” ma negli aequalis, in quei vicini borghesi della porta accanto che nascondono, dietro una facciata di normalità, una sete omicida e sadica. È nel finale che tutte le sicurezze, tutte le certezze, crollano pessimisticamente di colpo perché il vero nemico della società sono i frutti che essa stessa ha generato: persone annoiate che, per una notte, annullano se stesse dismettendo quegli abiti fittizi che erano stati costretti ad indossare.
Arguta e sapiente riflessione su un futuro poi non così tanto lontano da noi, La notte del giudizio dimostra di essere un film pensante, capace di dimostrare come il disegno di una società perfetta da noi tutti sognata possa trasformarsi, da un momento all’altro, in una vera e propria lotta per la sopravvivenza.
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