di Francesco Grano
Negli ultimi dieci anni, non sono stati pochi i registi che hanno avuto il coraggio di cimentarsi nell’ardua impresa di portare, sul grande schermo, le loro personalissime riflessioni su due dei maggiori conflitti del XXI secolo. Stiamo qui parlando – rispettivamente – della guerra in Iraq (o seconda Guerra del Golfo) e di quella in Afghanistan.
Nonostante lo spinoso tema dei due conflitti – uno ancora in corso (e senza apparente fine) e l’altro conclusosi da qualche anno – sono due i punti di vista offerti allo spettatore: quello del ritorno del reduce e quello di chi, la guerra, la vive (e combatte) ancora sul campo. Registi come Paul Haggis e Oren Moverman hanno optato per la prima categoria, rispettivamente con Nella valle di Elah (In the Valley of Elah, 2007) e Oltre le regole – The Messenger (The Messenger, 2009), altri come Kathryn Bigelow e Peter Berg, invece, per la seconda con The Hurt Locker (id., 2008), Zero Dark Thirty (id., 2012) e Lone Survivor (id., 2013).
E poi c’è chi, diversamente dai suoi colleghi, si colloca nel mezzo, unendo entrambi gli aspetti del combattente e del reduce. Stiamo qui parlando di Clint Eastwood e del suo American Sniper (id., 2014), omonima trasposizione dell’autobiografia di Chris Kyle, il più letale cecchino della storia militare degli Stati Uniti d’America, ucciso da un ex marine afflitto da stress post traumatico.
Cresciuto con una ferrea educazione basata sul concetto di difendere il prossimo e di rispondere al dovere verso la Patria e Dio, una volta adulto Chris Kyle (Bradley Cooper), segnato dall’orrore provocato dagli attentati alle ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya, decide di arruolarsi nel corpo d’elite della Marina statunitense, i Navy SEALS.
Dai duri campi di addestramento fino alla scuola per tiratori scelti, che lo plasmeranno come guerriero, Chris avrà anche il tempo di conoscere Taya (Sienna Miller) la donna che diventerà sua moglie e con la quale metterà su famiglia. Ma ben presto gli attentati dell’11 settembre 2001 e la guerra globale al terrore porteranno Kyle e i suoi commilitoni dallo stato di stanby a quello operativo nel teatro bellico dell’Iraq di Saddam Hussein. A Chris verrà assegnato un compito preciso: difendere i Marines e i soldati dell’esercito americano che combattono giù in strada casa per casa. Combattente per quattro turni di servizio (per un totale di più di mille giorni), il texano Kyle non sbaglia un colpo, totalizzando il più alto numero di uccisioni nella storia per un cecchino, che gli costerà il soprannome di “Leggenda” tra i commilitoni e quello di Shaiṭān Al-Ramadi, “Il diavolo di Ramadi” tra le file nemiche.
Eastwood, qui alla sua opus numero 34 dietro la macchina da presa, decide di confrontarsi con un’altra pagina della storia bellica degli Stati Uniti. Dopo aver mostrato (solo un anno prima di Kubrick e del suo Full Metal Jacket, 1987) il processo di “disumanizzazione” che trasforma dei semplici e normali ragazzi in delle vere e proprie war machines in Gunny (Heartbreak Ridge, 1986) e – successivamente – la disintegrazione di un “mito” a stelle e strisce e l’eroica resistenza del nemico nel dittico Flags of Our Fathers (id., 2006) e Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo Jima, 2006), con American Sniper la sua scelta cade sul rappresentare la cronistoria di Kyle e di chi, insieme a lui, ha combattuto in Iraq. Privando l’intero film di quella retorica discorsiva e propagandistica (anche se, ad un primo sguardo, sembrerebbe il contrario), il regista sospende il giudizio del “perché” di ogni guerra e se questa sia giusta o ingiusta. Chris Kyle non decide di arruolarsi e di combattere per via di un indottrinamento subliminale, al contrario, se lo fa è perché sente l’innato dovere di proteggere la sua Nazione, di difendere i suoi cari e i suoi connazionali e non per una inutile quanto banale ricerca di gloria. In Iraq, dall’alto, il cecchino protegge i commilitoni che combattono per strada, che rischiano di perdere la vita da un momento all’altro, sotto le pallottole o con un IED, gli ordigni esplosivi improvvisati. I SEALS e i Marines sono la sua “famiglia” da proteggere. Spesso i colpi di Kyle sono senza esitazione, ma a volte, nel momento di dover premere il grilletto, l’incertezza e il dubbio lo assalgono. È un uomo Kyle, fatto di sangue, carne e ossa, e – come ogni uomo – prova emozioni. Ad ogni perdita tra le file americane, per ogni milite killed in action sente, dentro di sé, di aver “fallito”. Ed è questo attaccamento, questo “dovere” di proteggere chi combatte come lui che lo porta ad allontanarsi dalla sua vera famiglia. La guerra sul campo ben presto lo lacera dall’interno, portandolo verso il punto di non ritorno, rischiando così di perdere i veri affetti.
Tema centrale di American Sniper è quello della “separazione in due” di un uomo diviso tra senso del dovere di soldato e dovere di marito e padre di famiglia. Non è un film sulla guerra questo di Eastwood ma piuttosto su ciò che la guerra provoca in chi la vive. È nel ritorno definitivo a casa, dopo essersi reso conto di aver adempiuto ai suoi compiti e aver dedicato parte della sua vita al corpo dei SEALS, che Kyle si scontra con una guerra più vicina a lui e (quasi) invisibile. Non si tratta di un conflitto on the camp ma di una guerra ai “margini”: è quella dei reduci, di chi – segnato nel corpo e nell’anima – non riesce più ad inserirsi e trovare posto nella società. Chris “appende” il fucile al chiodo perché si rende conto che, anche senza, può proteggere e aiutare chi ha combattuto e continua a “combattere” per (ri)avere una vita normale. Ma le guerre “interne” di ogni uomo, quelle combattute in silenzio e nell’ombra, a volte fanno più vittime di quanto si possa immaginare.
È un war movie crudo, reale questo American Sniper non nelle immagini ma nel messaggio di fondo: ogni guerra annichilisce, annienta l’animo umano, e chi è più debole sprofonda in un nero baratro non riuscendo più a distinguere gli “amici” dai “nemici”.
L’opera eastwoodiana emoziona, turba, tiene tesi e commuove allo stesso momento. Ed emoziona e commuove Bradley Cooper, che interpreta con tutto se stesso e magnificamente il ruolo di Kyle. L’attore non delude e dopo le magnifiche interpretazioni ne Il lato positivo – Silver Linings Playbook (Silver Linings Playbook, 2012) e American Hustle – L’apparenza inganna (American Hustle, 2013) entrambi di David O. Russell, dimostra e afferma la sua crescita attoriale. Cooper, con il suo volto, riesce a trasmettere le sensazioni e le emozioni legate ai dissidi interni di un uomo come Kyle, che ha combattuto su due “fronti” per difendere il suo prossimo.
Anche se Jason Hall, sceneggiatore del film, si è concesso numerose libertà narrative a favore della trama, American Sniper riesce a trasmettere il senso di un uomo, di un “american warrior” che ha dato tutto se stesso, anima e corpo, a ciò che credeva e per il proprio Paese.
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