di Elisa Scaringi
Colombia. Fine anni Ottanta. Nick e Dylan cercano il paradiso. E lo trovano. Tra le onde e il bosco. Ma l’apparenza inganna. Il pericolo è proprio lì, dietro l’angolo dell’amore. Vestito da Pablo Escobar.
Egli illude prima di tutto il bel canadese Nick (interpretato dal Josh Hutcherson di Hunger Games), innamoratosi della nipote Maria. Tutto sembra sano e onesto: un uomo arricchitosi con la cocaina che aiuta la gente del posto. Un moderno Robin Hood, che fa costruire scuole, ospedali, e addirittura stadi sportivi. Un uomo osannato per la sua generosità. E non importa come si sia arricchito: Pablo Escobar è l’idolo della Colombia più povera a cavallo degli anni Novanta. E lo sarà anche dopo il disastro che porterà a galla tutti i misfatti e i numerosi omicidi. Nulla lo allontana dalla sua gente. Anzi, il richiamo della sua bontà economica sarà ancora più forte.
Il senso di un film come Paradise Lost sta proprio in questo. Il magnetismo di un singolo uomo, capace di controllare l’80% della cocaina mondiale, che riesce a scalare la classifica degli uomini più ricchi del pianeta. E non importa se lo abbia fatto uccidendo e corrompendo. Lui è Pablo Escobar.
Sebbene molti sostengano una maggiore coerenza con l’originale di Wagner Moura, nella acclamata serie tv Narcos, Benicio Del Toro trasmette in questo film tutto il fascino di uno sguardo che prima ammalia, e poi fa paura. Perché “nessuno sfugge a Pablo Escobar”. E così sarà. Nella finzione come nella realtà. Un finto Robin Hood, che indossa i panni del paladino dei poveri per nascondere il suo narcisismo per le folle. Amante del lusso e dell’argenteria dorata, si farà addirittura costruire una prigione a sua immagine e somiglianza (La Catedral), dopo essersi costituito alla giustizia.
Il film sceglie di fermarsi prima però. E a ragione. L’ultimo dialogo con il prete conferma tutta la sua malattia di potere. Guarderà Dio da un cannocchiale e lo sfiderà. Perché Pablo Escobar, nella Colombia fine anni Ottanta, è più potente dell’Onnipotente stesso. E la giustizia o l’onestà non possono nulla contro la sete di successo. Nemmeno gli affetti. Solo e soltanto quelli di sangue incutono un certo riguardo nel malavitoso. Ma l’amicizia e il rispetto no. A vincere è sempre la morte per chi conosce troppi dettagli.
Il film è quindi un ottimo debutto per Andrea Di Stefano, supportato con gran forza dalla magistrale interpretazione di Benicio Del Toro, senza il quale la pellicola molto perderebbe del suo effetto magnetico. L’intento non è infatti quello di narrare semplicemente la biografia di un uomo che ha costruito il proprio potere sulla morte, ma il breve lasso temporale aiuta a concentrare la macchina da presa sugli sguardi e le azioni di Pablo Escobar. Il regista punta, così, al racconto di un disvelamento. L’uomo generoso e magnanimo che nasconde un animo crudele e senza scrupoli. Di nome Pablo Escobar.
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