Rabbit Hole è un libro a fumetti. Parla di una rete di gallerie che portano ad altre galassie e a universi paralleli. Un padre muore e il figlio deve entrare in questa specie di tana di coniglio per cercarlo. Ma non sono loro, perché si tratta di un’altra versione di loro. Negli universi paralleli ci sono altri di noi che magari stanno ripetendo le medesime azioni che noi adesso facciamo. Oppure no, magari fanno cose totalmente diverse. Si tratta del calcolo delle probabilità. In un universo così grande, se credi nella scienza, puoi credere anche a questo.
Quando comincia il film tutto è già successo. Becca (Nicole Kidman) e Howie Corbett (Aaron Eckhart) ci stanno provando. Ce la mettono tutta a fare i passi giusti per superare la straordinarietà degli eventi e rientrare nella quotidianità. Ma sono passi tremendamente pesanti. Gesti ripetitivi che fanno a cazzotti con gli animi lacerati dal vuoto di una casa troppo grande, nella quale Danny sembra che si sia nascosto e che debba sbucare fuori come sempre.
Ma Danny non tornerà più, perché a quattro anni può capitare che un bimbo insegua un cane scappato in strada. E non è colpa del cane, non è colpa di Danny, non è colpa di Becca o di Howie. Non è colpa di nessuno, neanche di Jason che forse guidava troppo veloce e che adesso disegna storie fantastiche.
A questo punto ci si aggrappa a tutto, ma tutto non basta. Partecipare a un gruppo d’ascolto può aiutare, ma non bastare. Quando non ci si pensa più, ci vuole poco per riportare tutto al punto di partenza. «Non se ne va mai via?». «No, ma diventa diverso. Diventa sopportabile, si trasforma in un peso dal quale puoi liberarti strisciando. E te lo porti in tasca, come un mattone. Ma quando lo dimentichi, metti la mano in tasca per qualche ragione… ed eccolo lì: quello».
In Rabbit Hole di John Cameron Mitchell non c’è solo dolore, c’è anche una trama, ma è funzionale all’elaborazione del lutto. Perché non c’è più nulla di piacevole nella vita di questa coppia che ha disperatamente bisogno che avvenga qualcosa, che cambi qualcosa.
Può capitare così che il dolore divida e prenda strade diverse. Che lo sfogo assuma forme strane e illogiche, che rivedere Jason possa aiutare Becca, che riprendere il cane mandato in un’altra casa possa servire a Howie, perché tutto manca loro, ma nulla gli serve, tutto vogliono cambiare ma nulla vogliono perdere o dimenticare del loro angelo biondo.
E anche se volessi ragionare su questo – non puoi avere ragione su tutto, è solo una festa, è il seggiolino di Danny, non sono pronta, ti vuoi liberare di lui, dobbiamo vendere la casa, perché l’hai visto? dove sei stata? – le parole risuonano vuote e inutili.
Il tempo scorre e scolpisce gli animi come muove i continenti e modifica i monti. Tutto continua e forse qualcosa si farà. Ma sarà maggiormente la ricerca della tana del bianconiglio dell’eroe di Matrix a condurre gli inconsolabili genitori verso un risveglio delle loro stanche vite o, piuttosto, vinceranno gli odori e i ricordi de La stanza del figlio di Moretti, facendo sprofondare così le loro vite nel nulla?
«In realtà, non se ne va mai. E questo è un bene». Ma non c’è trucco e non c’è inganno. Forse in un universo parallelo c’è più spazio per la bellezza, per le risate e la tenerezza. Vale la pena di provare a crederlo. Ma non sarà facile: Alice è in Wonderland è forse non tornerà più.
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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