Richard faccia di gomma

di M. Laura Villani

L’estate è il momento migliore per rivedere i vecchi film in televisione, finalmente liberati dalla programmazione stagionale ormai popolata di reality (che avendo ormai poco di reale andrebbero perlopiù chiamati artefattily) e programmini di intrattenimento. Questa sera ho rivisto per l’enne-ennesima volta Ufficiale e Gentiluomo di Taylor Hackford, interpretato nel 1982 dai giovani Richard Gere nei panni di Zack Mayo e da Debra Winger in quelli  di Paula Pokrifki “la polacca”.

Devo dire che non ho mai apprezzato Richard Gere come attore, forse per la faccia di gomma, forse per il muso un po’ equino, ma l’ho sempre trovato in un certo senso “dignitoso”, un personaggio “sensato”, lasciatemi passare i termini forse poco esplicativi, ma basati su sensazioni a pelle, pur essendo filtrate da uno schermo.

Questo è uno dei film che, incontrato casualmente in tv, non mi permette più di cambiare canale (a casa mia si diceva “girare” e l’imperativo “gira!” era compreso immediatamente da tutti, producendo effetti opposti, o obbedienza o conflitto), mi incolla letteralmente allo schermo. Sarà per i protagonisti, confusi e pieni dei loro fulgidi vent’anni, sarà per le divise bianche che affascinano anche chi non ama la divisa e ciò che rappresenta, sarà per il tema portante che è quello che più mi piace nei film e nei libri e cioè il rito di passaggio dal ragazzo all’uomo (o donna) con tutte le sofferenze e autolesionismi che comporta, o sarà per il finale più bello del mondo (su, ragazze, non fate le emancipate proprio adesso: chi non vorrebbe essere prelevata dal posto di lavoro davanti a tutte le colleghe dall’amato bene in divisa immacolata e tirata su di peso verso la luce e verso una nuova vita? Se poi ci saranno i piatti da lavare o i calzini sporchi da raccogliere non è la cosa più importante in quel momento dove tutto inneggia all’amore che vince e al male che perde… ma questo non lo diceva Verdone hippie in “Un sacco bello”?). Non so, forse è perché questo film mi trasmette un che di educativo, anche se può sembrare una parola grossa, un che di formativo.

Mayo arriva alla base da sbandato ma dentro ha una voglia fortissima di riferimenti, quelli che non ha mai avuto a casa sua, da suo padre che per il compleanno gli regala due prostitute e un’orgia in una casa disordinata e sporca, dopo che gli ha purtroppo “regalato” anni di solitudine e incertezza a seguito del suicidio della madre. Mayo adesso pensa che amare faccia male, che le persone non amano veramente e che “siamo tutti soli al mondo e quando lo capisci non soffri più”, soprattutto perché quando decidono di lasciarti non ti avvertono nemmeno, non ti consultano e non ti lasciano un biglietto di addio che contenga uno straccio di perché.

E così infatti accade anche all’amico Sid, condannato a sposare la fidanzata del fratello morto in Vietnam, condannato a vivere una vita non sua, mentre desidera solo diventare direttore di negozio in Oklahoma, magari portandosi dietro la ragazza di cui si è innamorato e scoprendo invece l’amara verità: lei non lo seguirà perché desidera solo sposare un pilota e lui si è appena ritirato dal corso. Sid se ne va senza avvertire, capendo di non poter essere amato per quello che è e sentendosi, proprio come dice l’amico Zack, solo al mondo.

E così amare fa troppo male, ma anche essere amati, e quindi arriva il momento della resa dei conti, dello scontro cercato con il formatore, il sergente maggiore Foley (qui premio Oscar all’attore Louis Gossett Jr.) che non accetta il ritiro di Mayo, pur avendolo in precedenza sollecitato, ritiro da Zack richiesto a gran voce per resa e non per decisa volontà. Foley capisce subito la situazione e lo scontro assume la forma precisa di “ora ti faccio capire perché non ti devi ritirare così, che non devi fuggire adesso”, segnando la svolta per Mayo che resta e prende il brevetto di pilota insieme ai suoi compagni.

Mayo accetta di restare, accetta il suo posto nel mondo, accetta che per vivere a volte bisogna dolorosamente decidere, ma soprattutto capisce di non essere solo come pensava: e soprattutto capisce che vivere fa male, è faticoso ma può essere anche bellissimo se si riesce a provare amore e gratitudine per chi ci aiuta nel nostro percorso, per chi ci resta accanto spesso silenziosamente. Mayo accetta il rischio e la fortuna di vivere e da quel momento, e scusate la retorica ma qui ci vuole, diventa Uomo.

E ora direi di goderci la bellissima canzone “Up Where We Belong”, colonna sonora portante del film e, naturalmente, premio Oscar. Alla prossima.


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2 Replies to “Richard faccia di gomma”

  1. Anche per me è lo stesso.Questo,come tanti altri films,mi incollano allo schermo ogni volta che vengono riproposti.Mi hai fatto sorridere quando hai scritto “gira canale”.I miei genitori continuano a dire così.Sei stata brava nella tua recensione.Complimenti davvero.
    A presto.

  2. M. Laura complimenti per la recensione, non tralascia nulla, è efficace e il tuo modo discrivere è fluido e piacevole da leggere. Attendiamo pezzi sul film più recenti!!!

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