di Francesco Grano
Città del Messico, 1970. Nel quartiere medioborghese chiamato Roma vive una famiglia agiata e la loro domestica, Cleo (Yalitza Aparicio), ragazza factotum che trascorre le sue intere giornate agli ordini dell’intero nucleo familiare. Amata dai quattro bambini della coppia ma spesso redarguita dalla padrona di casa, Cleo affronta ogni suo compito con religiosa accettazione, fin quando un evento imprevisto e i fermenti sociopolitici stravolgono la sua vita, quella della famiglia per cui lavora e la stabilità del Messico stesso.
C’era una volta in Messico… no, non è l’omonimo film diretto da Robert Rodriguez nel 2003 a conclusione della sua trilogia su El Mariachi: questa frase introduttiva di stampo favolistico sarebbe stata l’ideale didascalia con la quale il regista Alfonso Cuarón avrebbe potuto aprire il suo nuovo lavoro, Roma. Certo, l’ultimo lungometraggio dell’autore di I figli degli uomini e Gravity non è una favola ma ciò nonostante Roma è un salto nel passato storico di un Paese e, al tempo stesso, nell’infanzia del regista classe ’61. Quindi, sin dall’inizio e durante la visione, è più che lecito domandarsi che cosa sia Roma. Senza dubbio è il racconto della storia (intesa sia a livello narrativo sia come disciplina di studio) di tre storie: quella di Cleo, la giovane governante, quella della ricca famiglia per la quale lavora e, infine, quella del Messico.
In una riuscita amalgama temporale e visiva, Cuarón permette allo spettatore di entrare nel suo film, di viverlo in una totalità sensoriale come se fosse un protagonista silente, invisibile e onnisciente: si assiste al deterioramento degli equilibri della società e, con essa, alla frantumazione, allo smembramento di una famiglia abbandonata dall’uomo di casa, dal “padrone” che si lascia alle spalle tutte le responsabilità per fuggire altrove. Tutto questo sotto gli occhi di Cleo, la vera protagonista di Roma anzi, utilizzando la terminologia di Tesnière e Greimas, l’attante che ri(consegna) la visione di insieme, senza filtri alcuni ma – piuttosto – in maniera integrale e ad altezza del suo sguardo. Non a caso Roma è un film strutturato sull’importanza della visione e dello sguardo altrui. Senza scomodare la teoria lacaniana in merito su visione e sguardo, si può affermare con sicura certezza che l’opera di Alfonso Cuarón è pura visione; visione di un mondo in preda al cambiamento, vittima dello smarrimento del presente e testimone dello sgretolamento dei pilastri etici, morali e sociali antecedenti allo smottamento delle coscienze collettive.
Roma, come già affermato, è la mise en scène di tre binari narrativi paralleli e, per tale motivo, inscindibili. Tra abbandoni, solitudini ed estenuante fatica lavorativa Roma procede per addizione, mostrando stati d’animo ed esistenze mediante close-up, primi piani e scene di vita quotidiana riflesse sui finestrini delle auto, sulle vetrine dei negozi o – in maniera più semplice – negli specchi d’acqua. In fondo Roma è questo, ovvero un’intima e nostalgica riflessione su quello che è stato e su quello che, forse, sarà dopo il triplice mutamento posto al centro delle vicende: quello del corpo di Cleo (la gravidanza inaspettata), il riordino di una famiglia allo sbando e, infine, la voce della ribellione studentesca e proletaria che si scaglia come uno tsunami contro la violenza brutale e soppressiva dei poteri forti, lasciando per strada i cadaveri esangui di chi, per una volta, ha cercato di cambiare le carte in tavola.
Ma ciò che sorprende veramente di Roma, oltre l’impeccabile impianto scenotecnico (reso ancora più tale dall’egregio B/N e dai numerosi ricorsi ai piani sequenza e alle carrellate che ricordano il pedinamento zavattiniano di neorealista memoria) è la maestria di Cuarón nell’aver inserito un ulteriore livello narrativo, quello che ruota intorno alla figura della donna moglie, genitrice e, purtroppo, anche martire di una società maschilista vacua e menefreghista poiché sia Cleo sia la sua padrona, dismesse le gerarchie e i ruoli societari, scoprono di essere due donne molto simili abbandonate al proprio destino, ingannate, usate da vigliacchi pavidi e depauperati dal senso del dovere, “spettri” che rimangono sbiaditi sullo sfondo. Uomini senza donne è il titolo di una raccolta di racconti dello scrittore giapponese Murakami Haruki e, parafrasandolo, si può dire che quelle al centro di Roma sono donne senza uomini che, nonostante le avversità, hanno la forza necessaria per rimboccarsi le maniche e far valere la propria posizione nel mondo.
Commovente e nostalgico dramma esistenziale, Roma senza dubbio rappresenta l’opera filmica della maturità del regista Alfonso Cuarón, il quale ha saputo regalare agli occhi, alle menti e ai cuori degli spettatori un Film che trasuda tutta la potenza della Settima arte, di quel cinema d’autore che dialoga con i sentimenti e le emozioni nel buio della sala e che non si lascia dimenticare. Forse è troppo presto etichettarlo sotto l’aggettivo capolavoro ma, di certo, Roma è un imponente monumento filmico entrato, a pieno diritto, nell’alveo del grande cinema.
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