Ancora sulla Shoah, per non dimenticare.
«Tra la lama meccanica usata per le esecuzioni capitali dopo il 1789 e lo sterminio industrializzato di milioni di esseri umani si situano varie fasi intermedie. La più importante, durante la seconda metà dell’Ottocento, fu probabilmente la razionalizzazione dei mattatoi. Prima situati nel cuore delle città, essi ne erano ora allontanati (come i cimiteri) in base alle prescrizioni di una politica igienista tesa al risanamento dei centri urbani. Oltre a essere spostati verso la periferia i mattatoi vennero anche concentrati e quindi drasticamente ridotti nel numero complessivo. Scomparivano dal paesaggio urbano e, nello stesso tempo, sopprimevano tutta la dimensione festiva e sacrificale che aveva, fino a quel momento, accompagnato la macellazione. […] Le bestie vi erano ormai abbattute in serie, in base a procedimenti strettamente razionalizzati: concentramento nelle stalle, ammazzamento, svisceramento, recupero e trattamento dei resti. […] In fondo, scriveva Kracauer, i Lager nazisti erano mattatoi in cui individui declassati dal genere umano erano uccisi come animali. A sua volta lo storico Henry Friedlander ha messo l’accento su questa affinità definendo i campi di sterminio nazisti dei macelli per esseri umani» [1].
Interrogato da Claude Lanzmann – autore dello splendido e imponente docu-film Shoah, nonché profondo conoscitore del genocidio – l’ex SS Franz Suchomel affermava che «Treblinka era la morte alla catena di montaggio, certo primitiva, ma funzionava bene».
Eppure è lo stesso Lanzmann, intervistato da un giornalista, a sbottare dopo un paio di domande tendenti a comprendere e analizzare i motivi per cui tutto ciò fosse potuto accadere: «Lo sterminio è diventato burocratico perché doveva funzionare, far andare i treni, organizzare i campi e i forni crematori… […] Ma non capisco perché mi pone questi interrogativi…». È roba scontata, stravecchia.
E infatti, Lanzmann è uno studioso del genocidio in controtendenza: dove lo scritto ha debordato, per lui occorre rivalutare il silenzio; dove le tante parole hanno permesso il processo di metabolizzazione, per Lanzmann occorre rivedere e meditare; dove le immagini di repertorio hanno ricostruito l’inimmaginabile, per il cineasta francese le testimonianze visive fanno precipitare nuovamente nell’orrore.
«Leggere e basta», infatti «non è sufficiente. Bisogna vedere e sapere, sapere e vedere, indissolubilmente. È un lavoro straziante», sostiene Lanzmann. «È per questo che Shoah è un film sulla radicalità della morte e non sui sopravvissuti».
In Shoah Lanzmann percorre a ritroso il ritorno alla normalità, quel triste e doloroso viaggio che anche i sopravvissuti hanno dovuto affrontare, mentre tanti non ce l’hanno fatta. Per farlo, cammina a tastoni, come un cieco, dapprima legge, poi si reca sui luoghi dell’orrore, cercando le persone, i testimoni ancor prima dei sopravvissuti e dei carnefici. Sono loro i veri fantasmi di questa immensa tragedia umana che, adesso, sotto l’occhio implacabile della macchina da presa mettono a nudo la loro indifferenza, ma a volte la vergogna, l’incoscienza, ma a volte il disagio di essere stati al centro infernale del mondo terreno, fin quasi sulla soglia della porta dell’Ade, dove insepolti non poterono entrare.
I testimoni sono i tecnici che hanno manovrato i percorsi dei treni, i contadini che li vedevano arrivare carichi di deportati, gli amministratori del ghetto, i vicini di casa di gente sparita nel nulla. Sono loro i testimoni dell’inenarrabile, anche con i loro silenzi, con le frasi rotte, con le risposte non date, con i pianti inghiottiti. Sono loro, attraverso un montaggio dall’apparente costruzione casuale, a definire il tutto, il quadro, la complessiva visione, il disegno strategico di morte perseguito dal regime nazista. «È il punto di vista che crea l’oggetto».
Loro sono anche i membri dei Sonderkommandos, i testimoni morti idealmente nella terra di nessuno, quelli che da dentro il campo sono scampati all’aldilà, che sono tornati indietro per continuare a vivere «per un miracoloso concorso di coraggio e fortuna». Loro non possono essere definiti sopravvissuti; sono quelli che non parlano mai di se stessi, ma di “noi”, assumendo il pesante fardello di essere «portavoce dei morti».
«Credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, a uno a uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato». Questo disse di loro Primo Levi.
Loro, come in quel magnifico e straziante ricordo d’amore del barbiere Abraham Bomba, interrotto continuamente dalla reticenza della mente razionale di proseguire nel racconto, come quando rifiutiamo di aprire una camera chiusa della quale possediamo la chiave, perché sappiamo già che lì dentro troveremo il ricordo del nostro dolore più grande. Questo piccolo grande uomo costretto a tagliare i capelli alle donne dentro le camere a gas di Treblinka.
Poi ci sono i luoghi: foreste, villaggi, città, stazioni ferroviarie, crocevia di orribili realtà. Fiumi dove si gettavano le ceneri dei defunti, prati dove sono seppelliti gli ebrei, asfissiati durante i viaggi nei camion con lo stesso gas di scarico prodotto dal mezzo, perfidamente reintrodotto all’interno dei cassoni sigillati mediante un’apposita conduttura.
Trecento ore di girato, dieci anni di lavoro, un film di nove ore e mezza, rigorosamente condotti da un imperativo etico: quello di raccontare la verità senza immagini d’archivio, attraverso una struttura circolare e concentrica, nella quale le testimonianze diverse s’incontrano soltanto attraverso il montaggio.
Un film che non vuole spiegare, perché non sempre c’è una risposta. «Ci sono state molte cose misteriose, è esistita ogni aberrazione possibile. E secondo me non si deve spiegare tutto, il mistero di questa storia fa parte del suo stesso dramma […] Come il convoglio dei bambini ebrei polacchi: arrivano a Theresienstadt da Bialystock, vengono portati sotto la doccia, una doccia vera, e si mettono a urlare: “Gas! Gas!” perché hanno già sentito parlare delle camere a gas. Poi, molto rapidamente, gli stessi bambini vengono deportati ad Auschwitz – con alcune infermiere, tra cui la sorella di Kafka – e gassati all’arrivo. Chissà se li avevano portati a Theresienstadt per servirsene per una eventuale negoziazione? Non credo che ci sia altra spiegazione per i campi per famiglie».
«Una grande preoccupazione dei nazisti è stata cancellare tutte le tracce», osserva Simone de Beauvoir. Cancellare, togliere dalla vista, spostare, rimuovere: erano i mattatoi per gli esseri umani, le fabbriche della morte seriale.
«Abraham, continui, deve continuare a raccontare, lo dobbiamo fare, lo sa».
«Non ce la farò».
«La prego…».
«I capelli che tagliavamo alle donne, li mettevamo in sacchetti che spedivamo in Germania…».
E Abraham Bomba continua il suo racconto. Non ci sono risposte, non occorre spiegare.
Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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