“Silence”: il confine tra la carne e la fede

 

di Elisa Scaringi

 

Le macchine da presa hanno spesso raccontato l’olocausto degli ebrei. Meno, invece, delle persecuzioni subite da altre popolazioni, quali ad esempio i rom, che videro la morte in 220.000 a seguito delle deportazioni avvenute durante la seconda Guerra Mondiale.

Lo scarso interesse da parte del sistema cinematografico ha coinvolto anche i martiri cristiani, spesso ripresi nelle figure di grandi maestri o eroine storiche (come la Edith Stein ne La settima stanza dell’ungherese Márta Mészáros o la Giovanna D’Arco di Luc Besson), a discapito delle centinaia di nomi sconosciuti, morti per la fede e mai raccontati da nessun regista. Come accadde per la pellicola Uomini di Dio (vincitrice del Grand Prix Speciale della Giuria al 63° Festival di Cannes): un racconto intimo del drammatico, e poco conosciuto, assassinio dei monaci cistercensi di Tibhirine, un villaggio isolato tra i monti dell’Algeria, avvenuto nel 1996.

Il film di Martin Scorsese si inserisce perfettamente in questa linea di rottura: dopo una lunga serie di film sull’olocausto, ora sono i martiri cristiani a irrompere sulla scena. Uccisi in Giappone agli inizi del XVII secolo, questi uomini e queste donne, barbaramente torturati, ci parlano di un passato molto violento, anche in una nazione apparentemente molto pacifica come quella nipponica.

Silence

Ispirato all’omonimo libro di Shūsaku Endō, Silence segue le orme di due gesuiti portoghesi, partiti alla volta del Giappone per tentare di conoscere le sorti del confratello, e maestro di studi, accusato di aver sconfessato la fede cattolica a seguito delle torture subite. La pellicola parte da qui per affrontare con delicatezza il profondo tema del rapporto tra la fede a cui l’uomo è portato e la carnalità da cui ogni essere umano è richiamato. Per ben due volte padre Rodrigues mangia dimenticando di ringraziare prima il Signore: l’istinto della fame, a lungo disatteso, sovrasta sul sentimento. La carnalità pervade il suo essere un uomo che ha scelto il sacerdozio. Lo spirito, seppur ben radicato nella fede, vacilla sotto i colpi della fame.

Tutto il film ruota, allora, intorno a questo dilemma, che nemmeno alla fine viene sciolto: quale può essere il confine tra l’umanità carnale e la fede dell’anima? E soprattutto: questo solco esiste realmente oppure l’essere umano non può che essere soltanto unico e indivisibile? Il cammino di Rodrigues e Garupe alla ricerca del maestro perduto non è altro che la strada verso il dubbio e l’oscurità. Il coraggio degli inizi si trasforma repentinamente in una perenne lotta tra l’istinto del corpo a rifuggire il dolore e l’elevazione dello spirito a mantenersi saldo nella fede. Il viaggio dei due preti dimentica presto la Liam Neesonmeta (il ritrovamento di padre Ferreira), e si perde nei vortici di un’anima che, di fronte al martirio, non può non vacillare.

Sullo sfondo, che è poi parte integrante di questo viaggio, la cultura giapponese e il suo rapporto con gli evangelizzatori, accusati principalmente di utilizzare la propria religione a fini coloniali. L’uccisione dei cristiani si fa messaggio politico lanciato a nazioni come la Spagna e il Portogallo, che a partire dall’arrivo di padre Francesco Saverio nel 1549 cominciarono a convertire uomini e donne, fino ad arrivare a circa 300.000 cristiani.

La disputa religiosa con il martirio c’entra poco: al di là della scarsa comprensione culturale di una divinità che non è più donna dal cuore caldo, ma padre dalla mano severa, le differenze tra buddhismo e cristianesimo avrebbero sicuramente potuto sopperire alle assonanze. Una fra tutte la solidarietà verso l’altro e la tensione a un divino che cerca di prescindere dalla caducità del mortale.

Silence di Scorsese cerca, quindi, di scandagliare l’animo umano, misurando la sua fede in un Dio che non parla e non si vede nei momenti peggiori della vita, quando tutto sembra perduto e il dolore è a un palmo di naso. Il rapporto Dio-credente viene raccontato attraverso le vicende di un martirio che non si consuma solamente nella morte, ma può persistere nell’animo di un uomo per tutta l’esistenza. Come accaduto per padre Ferreira, e per Rodrigues dopo di lui: accettando la propria vulnerabilità umana, hanno saputo lasciarsi perdonare da un Dio materno (come quello degli oppressori), e farsi accompagnare nella sofferenza del silenzio fino alla fine.

 

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