The Revenant: storia per immagini di un redivivo

 

di Elisa Scaringi


The Revenant

 

Riuscirà Alejandro González Iñárritu a conquistare l’ambita statuetta, dopo appena un anno dall’Oscar per Birdman? Speriamo di sì. E non per una mera affezione verso un regista capace di incuriosire e meravigliare per la bravura fin dalle sue prime pellicole (Amores Perros e 21 Grammi). Ma soprattutto perché si tratta di un autore in grado di portare con forza la sua visione messicana all’interno del cinema americano, spesso autoreferenziale e poco aperto a degli outsider come Iñárritu.

Ciò emerge con forza soprattutto nella sua ultima pellicola, The Revenant, già premiata con tre Golden Globes (regia, film drammatico, attore protagonista) e candidata a ben 12 premi Oscar. Si tratta di una storia cruda e a volte feroce, ambientata nel Missouri del 1823, quando il cacciatore di pelli Hugh Glass (realmente esistito e interpretato da Leonardo DiCaprio) viene abbandonato in fin di vita in mezzo alle montagne innevate.

Il film non è tanto una biografia per immagini di un uomo che riesce a “rivivere” contro i pronostici dei suoi compagni di viaggio. È soprattutto la narrazione di un corpo in grado di sopravvivere alle ferite profondissime e al freddo più pungente, solo in mezzo alla natura inospitale e spesso malvagia. Corpo che, nella sua lotta forsennata contro il dolore e la disperazione, viene prestato come simbolo di quello scontro irrisolto tra nativi e colonizzatori, indiani e americani. Corpo che tenta una mediazione fra le parti, sbilanciandosi spesso dalla parte degli indiani d’America, sottolineando così la posizione imparziale di un regista messicano privo di qualsivoglia nazionalismo melenso nella questione della colonizzazione del Nuovo Mondo.

The Revenant abbandona così il metalinguaggio di Birdman, insieme con i dialoghi serrati e gli interni labirintici, per abbracciare i suoni del corpo sofferente e gli spazi profondissimi della natura selvaggia. La pellicola ha quindi il grande pregio di condurre lo spettatore in uno scenario insolito, nel quale uomini di appena due secoli fa riuscivano a mantenersi in vita in condizioni a noi ormai sconosciute. Solo per questo Iñárritu e DiCaprio meriterebbero un Oscar: aver raccontato una storia non tanto vera, quanto piuttosto realistica, soprattutto nei campi lunghi, che mettono in immagini la visione del regista sull’America di fine Ottocento e il dolore del protagonista dilaniato dall’istinto di sopravvivenza.

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