di Susanna Biancifiori
Recentemente ho accettato l’invito del mio fidanzato e di mia sorella ad andare a vedere Quasi amici e non mi sono assolutamente pentita di aver investito 6 euro del mio budget mensile al cinema!
Un film pieno di vita, che affronta il tema della diversità facendo commuovere – quando è giusto – ma soprattutto con una comicità che a tratti è disarmante.
La storia è quella di Driss, giovanotto di colore cresciuto in Francia e non ben integrato, che non avendo i mezzi legittimi per raggiungere gli scopi promossi dalla società si trova costretto a mettere in atto comportamenti devianti e criminali; e di Philippe, miliardario parigino appassionato di musica classica e di arte, costretto alla sedia a rotelle dopo che un incidente con il parapendio l’ha reso tetraplegico.
Alla ricerca di una firma per ottenere il sussidio di disoccupazione, Driss si reca a casa di Philippe, che ha indetto dei colloqui per assumere una persona che lo assista in ogni momento della giornata e lo aiuti nella fisioterapia.
Al di là di ogni previsione, dato l’atteggiamento totalmente disinteressato con cui si presenta al colloquio e viste le inesistenti referenze per il ruolo ricercato, Driss viene assunto.
Il suo atteggiamento sopra le righe rispetto ai canoni imposti dall’etichetta alto-borghese porta scompiglio nella casa e nelle vite di chi la abita, ma soprattutto riporta Philippe alla vita. Già, perché molto spesso il timore nei confronti della disabilità porta a percepire e considerare l’altro-disabile come diverso da noi e a rapportarsi ad esso in maniera non naturale.
Di questo ne so qualcosa dato che dal mese di luglio assisto una giovane donna che, a seguito della somministrazione di un medicinale a cui era inconsapevolmente allergica, ha perso la vista, la capacità di articolare correttamente le parole e quasi totalmente la mobilità degli arti superiori ed inferiori. Dopo il nostro primo incontro, in seguito al quale sono stata “assunta” e durante il quale era presente sua madre, che ha avuto la premura di tradurmi fedelmente ogni sua parola in modo da consentire che mi abituassi al suo linguaggio, mi attanagliava il timore di non essere all’altezza delle sue esigenze, di non essere in grado di rapportarmi con lei in maniera adeguata, di dire o fare qualcosa che avrebbe potuto offenderla. Il pensiero di non comprendere le sue parole mi preoccupava non poco. Come dovevo comportarmi? Sarei stata scortese a chiederle di ripetermi le cose? Domande banali come queste mi riempivano la testa. Paradossalmente è stata proprio lei a mettermi a mio agio e a venirmi incontro, parlando lentamente e sforzandosi di articolare quanto meglio poteva ogni singola parola.
È una persona che mi sta insegnando molto, soprattutto perché, pur non essendole stata riservata una facile esistenza, non ha perso il sorriso, l’ironia e la voglia di vivere.
Dopo questa parentesi personale, torniamo a noi!
Ho preso in considerazione il film Quasi amici non tanto per la trama in generale (che pure offrirebbe molto di cui parlare), quanto per una scena in particolare. Philippe si trova in una galleria d’arte intento ad acquistare un quadro per una cifra che Driss trova assolutamente spropositata, data la natura dello stesso. Per lui, infatti, in quella tela è raffigurata solo un’inutile macchia rossa che chiunque sarebbe stato in grado di fare. Di fronte a quel quadro, in attesa di sapere la cifra esatta a cui è in vendita, Philippe domanda a Driss perché, secondo lui, la gente si interessi all’arte. Il ragazzo, non avendo mai riflettuto sulla questione, risponde “Perché è un business!” e Philippe, che è addentro all’ambiente da tutta la vita e che ha un animo più sensibile afferma: “No. Perché è la sola traccia del nostro passaggio sulla terra.”
Mentre veniva posta questa domanda, e prima ancora di ascoltare la risposta, ho pensato che se sulla scena ci fosse stato Pierre Bourdieu avrebbe sicuramente risposto “Per una questione di capitale culturale e di habitus”.
Il capitale culturale è l’insieme delle conoscenze, dei valori e degli atteggiamenti nei riguardi della cultura che la famiglia (ma soprattutto la madre) trasmette al figlio. Conseguenza del capitale culturale, l’habitus è l’insieme coerente di abitudini, capacità, caratteri distintivi che formano l’individuo attraverso un condizionamento non cosciente e l’interiorizzazione dei modi di essere propri di un ambiente sociale. Tale nozione consente – tra l’altro – di comprendere in cosa consiste quello sbarramento che impedisce l’accesso ai luoghi di alta cultura. Questo è dato non tanto da una mancanza di mezzi finanziari o di conoscenza, quanto dall’impossibilità di familiarizzarsi con l’ambiente, di sentirsi a proprio agio in un luogo al quale si è consapevoli di non appartenere. In più chi possiede un certo capitale culturale ed un relativo habitus sarà anche in grado di apprezzare a pieno certe forme di arte. Si generano in questo modo due gusti diversi: il lusso e l’estetica popolare.
Inoltre, dato che il capitale culturale non è statico e fine a sé stesso ma anzi trasformabile, ne consegue che chi possiede cultura può investirla e trasformarla in capitale economico, capitale sociale e capitale simbolico. Sempre per una questione di capitale culturale, inoltre, accade sovente che non soltanto le classi sociali e l’habitus ma anche certe professioni vengano “tramandate” di padre in figlio.
Ora, è fuor di dubbio che chi ha un elevato capitale culturale di base sarà più avvantaggiato rispetto a chi proviene da famiglie più povere culturalmente a raggiungere certe posizioni, a frequentare certi ambienti e ad avvicinarsi a certe forme di arte e cultura. Tuttavia viviamo in una società dove è possibile la mobilità verticale e dove, per quanto è indubbio il ruolo che la famiglia possiede nell’educare e socializzare i figli, c’è la possibilità di migliorare la propria condizione rispetto a quella di partenza e aumentare il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. La formazione scolastica (e quella universitaria laddove ci sia) in primis ma anche la lettura, il documentarsi in generale, l’ascoltare gli altri e far tesoro dei loro insegnamenti, i viaggi, frequentare certi luoghi o eventi – e chi più ne ha più ne metta – possono arricchire in varie fasi della vita il personale bagaglio culturale.
Un po’ come ciò che accade ai protagonisti: seguendo Philippe tra musei, teatri e concerti di musica classica, Driss può non solo apprezzare nuove forme artistiche ma dare voce ad aspirazioni pittoriche che probabilmente neanche immaginava di possedere, trovandosi nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi promossi socialmente con mezzi leciti ed uscire così dal ghetto.
In cambio Philippe ha trovato un amico vero, qualcuno che lo considerasse per quello che è: una persona con una dignità, dei sentimenti e il diritto di vivere una vita piena nonostante l’involucro difettoso rappresentato dal suo corpo.
Quasi amici (Intouchables), regia di Olivier Nakache e Éric Toledano, 2011
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