Una sconfinata giovinezza

Dove scappa un bimbo? Non si sa.

Ci sono luoghi persi nell’anima, trasformati dal lento incedere di una subdola malattia, nei quali uomini e donne, tornati bambini contro la loro volontà, possono smarrirsi finendo per non trovare più la strada di casa.

Lino Settembre (Fabrizio Bentivoglio) sa ancora chi è. È un affermato  giornalista sportivo appassionato di calcio e di ciclismo. Due passioni che non sono arrivate assieme: il ciclismo è la passione dell’infanzia, il calcio quella della maturità. Ma, da sempre, Lino ama sua moglie Chicca (Francesca Neri), docente universitaria, suo unico amore e sola grande passione, veramente indispensabile per dare un senso alla vita.

Pupi Avati con Una sconfinata giovinezza, dopo quarantuno film, giunto – come egli stesso dice – «nella seconda parte del secondo tempo della sua vita, in prossimità dei titoli di coda», racconta l’amore.

Ebbene sì, l’amore. Certo, non quello travolgente e appassionato, sognato e fantastico come ti immagineresti di trovarlo in un film di Roberto Benigni, che sempre lo insegue come se fosse l’unico anelito della vita, ma esattamente quello che ti aspetteresti di vedere catturare dalla macchina da presa di  Pupi Avati. Un amore sano, contenuto e tranquillo.

Chicca e Lino, sposati da venticinque anni, hanno vissuto il loro amore intensamente, lungamente, senza particolari traumi, ma nella malinconica accettazione di non averlo potuto coronare con l’arrivo di un figlio. E adesso stanno per arrivare nella fase matura, ma forse anche la più intima, vivendola serenamente, senza particolari angosce, condividendo ancora emozioni e interessi comuni.

Sono, insomma, appena entrati nella prima parte del secondo tempo della loro vita. Non è ancora il momento di pensare ai titoli di coda. È una zona della vita nella quale si avverte maggiormente l’interesse di consolidare, di assaporare la lentezza, di cogliere le sfumature.

«Come si dice quando uno interviene tra due che stanno parlando? Si intrufola?».

«Si intromette!».

 

 

E quelle sfumature, quelle parole dimenticate, quei particolari, non sono sfuggiti agli occhi innamorati di Chicca. Dapprima il suo Lino non trova le parole adatte, poi dimentica i nomi delle cose comuni, infine non si presenta ad un appuntamento.

Con la scusa di sottoporlo ad una visita necessaria per l’assicurazione, Chicca lo porta da un medico. La diagnosi è morbo di Alzheimer.

Inizialmente è quasi nulla, sfumature – appunto – impercettibili, contrastate dalle terapie ma, lentamente, tutto sarà sempre più difficile per Lino e persino scrivere diventerà un’impresa.

I primi deficit sociali si presentano, infatti, nel mondo del lavoro. Lino dimentica i nomi, divaga sui pezzi, è assente nei dibattiti televisivi. Viene tempestivamente convertito nel ruolo di inviato speciale, con la scusa che potrà scrivere di tanto in tanto, in tutta calma, un commento sul campionato, senza obbligo di pubblicazione. E nel frattempo potrà godersi la pensione: è così che inizia l’isolamento.

Il medico avverte Chicca che Lino potrebbe diventare aggressivo anche verso lei stessa. Sarebbe per lui un modo, confuso ed istintivo, di cercare di aggredire la malattia. Pertanto, gli consiglia il ricovero in un istituto specializzato.

Chicca percepisce che dietro al ricovero si potrebbe celare un ulteriore passo verso l’isolamento di Lino e decide di tenerlo con sé, di combattere con lui. Se fosse il caso, di regredire con lui, cercando di entrare nel suo mondo.

Ma è invece il mondo dell’Alzheimer ad essersi intromesso nel loro dialogo d’amore. Ed è un mondo che vuole il malato tutto per sé, che lo reclama, lo cattura, lo svuota e lo sottrae alla sua vita, ai suoi affetti, ai suoi ricordi. Dunque, anche all’amore dei suoi cari.

Tutto esternamente in Lino resta normale, ma la sua visione cambia: i ricordi di ieri cominciano ad essere sopraffatti da quelli della prima parte del primo tempo della vita. Ridiventano prepotentemente importanti i primi giochi, i nomi dei ciclisti, gli amici dell’infanzia. Ritornano le immagini del suo cane che si chiamava Perché.

Inevitabilmente, il mondo di Lino si proietta in una caduta a spirale nella quale la presenza di Chicca è l’unico appiglio alla sua realtà. Una realtà nella quale lui l’ama, questo sì, ma in un modo possessivo, egoistico, infantile e quasi filiale, e nella quale lei ha il posto di una mamma.

Chicca cerca di adattarsi ancora al nuovo ruolo – come probabilmente farebbe chiunque ama – recitando la parte che il proprio amato, perduto in un luogo nascosto, si aspetta. In modo eroico, agli occhi degli altri ma, nel mondo dell’Alzheimer, c’è ben poco di eroico e molto di ostinato. E, nonostante ciò, alla fine si potrebbe essere costretti a cedere. Perché, se si ama quel congiunto, non esiste ostinazione che tenga.

Fabrizio Bentivoglio affronta il ruolo del malato in modo magistrale ma calibrato, non caricando la recitazione, senza operare forzature perché, se c’è qualcosa che non necessita di ulteriore carico è il peso di una malattia che solo in Italia conta oltre seicentomila casi e coinvolge, direttamente o indirettamente, due milioni e quattrocentomila persone.

Un universo sconfinato di malati che di fatto scompaiono pur essendo ancora lì, in un limbo, in un rifugio della loro mente, in un luogo segreto e inaccessibile, in una regressione all’indietro nella quale i titoli di coda vengono riannodati a quelli dell’inizio.

C’è un bambino che scappa e la sua mamma non riesce più a trovarlo. Dove vanno tutti i bambini che scappano? Perché è così segreto e irraggiungibile quel luogo? Perché?

 

 

Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani

Clicca qui se vuoi vedere il trailer del film



One Reply to “Una sconfinata giovinezza”

  1. Non so se vedrò questo film, propabilmente sì, perchè ho visto tutti i film di Pupi Avati, ma sinceramente penso che noi siamo la nostra mente, e l’idea di perdermi mi spaventa.

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