Se vi aspettate che parli qui di un film, fra i tanti, sulla pena di morte, ebbene cambiate aria.
Lo dico subito, sono contraria alla pena di morte, all’omicidio di stato, anche se a volte, come a molti, viene anche a me di pensare che certi esseri umani non dovrebbero proprio respirare. Ma l’atavico senso di vendetta o di rivalsa nei confronti di chi offende la dignità umana non può e non deve ricoprirsi della stessa infamia, l’occhio per occhio non funziona. Per tacere dei casi di errore giudiziario.
Ci sono situazioni in cui la morte non è solo un momento (il sussulto di una vena o la drammatica agonia sopra una sedia), ma condannano ugualmente a una sentenza capitale forse assai più dolorosa.
Tanto che alla fine la morte non ti appare più insondabile e crudele, e te la vai a cercare.
Son tanti i nomi dei ‘condannati a vivere’ di cui non possiamo essere fieri.
Joseph Merrick (1862-1890), per citare uno dei casi più eclatanti, costretto a vivere come fenomeno da baraccone a causa di deformità inconcepibili per il sentire (o il vedere) comune.
Un film ce ne offre un’idea più che accennata, soffermandosi sia sull’orrore che sulla breve parentesi di felicità e di parziale riscatto dalla sofferenza causati a un uomo non tanto da un disturbo allora, come oggi, poco noto (la neurofibromatosi di tipo I o una variante, in seguito evidenziata come sindrome di Proteo) bensì dalla crudeltà degli uomini.
La sua condanna, quella a cui viene costretto, è di rendersi invisibile agli occhi, girare incappucciato, non percorrere alla luce del giorno le strade da tutti comunemente battute. Il suo posto è nelle fiere, in luridi cubicoli, nelle gabbie con gli animali. La sua condanna è vedersi riflesso in uno specchio, per ricordare a se stesso, prima che agli altri, che un simile abominio va tenuto nascosto, anche a chi fa finta di accettarlo, per lucro o per ipocrisia.
The Elephant Man è la storia semplice e lineare di una vita che è morte civile, ripercorsa sulla base degli incartamenti di Frederick Treves – il medico che lo salvò dai suoi aguzzini – dell’inglese Joseph Merrick, ripudiato, a causa della sua deformità, a 11 anni dalla famiglia e costretto ad umili lavori, anche abietti, pur di sopravvivere.
Fenomeno da circo, ottenne un interesse prima scientifico, poi il sostegno e l’amicizia di un gruppo di persone che gravitavano intorno al London Hospital, primo fra tutti il medico che ne accertò la malattia.
A causa delle vistose deformità che deturpavano le membra e il capo, a Joseph (John, nel film) era perfino impedito di dormire disteso, e fu probabilmente il tentativo di imitare un comportamento tipicamente umano, oppure la consapevolezza di avere visto tutto della vita (in bene o in male) che lo portarono una sera ad ovviare l’abitudine di riposare in posizione eretta, provocandosi di fatto l’eutanasia (nel senso semplice e limitato di buona morte).
Non sono sempre così drammatici gli eventi che ruotano intorno ad una messa al bando.
Accade che anche in civilissimi contesti, e con registri di tutt’altro calibro, si possa ritrovare il senso di solitudine, isolamento, condanna cui si costringe di fatto un essere umano.
È il caso di un bel film tutto napoletano (fra sceneggiata e dramma popolare), siglato da Luca Miniero e Paolo Genovese.
Giocata sul filo dell’ironia, ed intessuta di stilemi ed echi di una napoletanità che sfiora razzismo e integralismo (con cui i registi divertono abilmente), la pellicola ripercorre la vicenda di una disgrazia casalinga, l’avere generato nel cuore di una Napoli più che mai verace e attonita una creatura che parla e pensa solo in milanese.
Così la piccola Assuntina Aiello (ribattezzata a sfregio cotoletta) viene tenuta segregata in casa, lontana dagli sguardi di compassione e di pietà di tutto il parentado, dei vicini e conoscenti, perché certe disgrazie non dovrebbero accadere neanche al peggior nemico. Una bambina che dice mami e papi (in luogo di mammà e papà), che schifa e sputa il ragù (un rito!) e la pastiera per risotto e panettone, che da grande vuole aprire una fabbrichetta, e appena adolescente si comporta come una donnaccia, rimanendo incinta, e senza un fidanzato, di una creatura, che dopo lungo strazio sancirà il ritorno all’equilibrio, perché si spera possa essere, almeno lui, un napoletano verace.
Viene da ridere (amaramente), e pure assai, dello sgomento e dell’impegno che questi genitori impiegano per modellare la creatura riluttante. E qui non vale il dall e dall, si piega anche o metall, si scende al compromesso, nella speranza di salvare il padre dalla completa insanità mentale, perché la figlia no, ma il nipote è pur sempre un piezz e core, e può ripristinare l’ordine del mondo e la tradizione.
Storie di mostri, resi tali non già dalla loro particolarità, ma dall’ottusità del mondo circostante, che vuole fissità e omologazione, nel rispetto di apparenze rassicuranti quanto povere di contenuto.
E dove i veri mostri che si aggirano son solo quelli schiacciati dalla norma, perché come scriveva qualcuno le aberrazioni non sono mai esteriori, ma albergano nell’interiorità.
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Gli zii di Assuntina tentano invano di ‘raddrizzarla’
httpv://www.youtube.com/watch?v=tKJ3cROh88w&feature=related
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The Elephant Man, GB/USA, 1980, regia di David Lynch
Incantesimo napoletano, Italia, 2002, regia di Paolo Genovese e Luca Miniero
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Complimenti. Ottima analisi…