Omaggio a H.P. Lovecraft
Qualcuno fra gli anziani ancora ricorda che Rivombrosa e Rivapelosa erano un tempo ridenti località sorte sui lati opposti di un fiume.
Rivombrosa doveva il suo nome alla folta vegetazione – soprattutto querce – che forniva un utile riparo all’opprimente calura estiva; era inoltre rinomata per le numerose varietà di alberi da frutto, il cui commercio garantiva un discreto profitto ai suoi abitanti.
Rivapelosa, la cui denominazione originaria era invece Solatia, era ora un luogo assai impervio per l’aridità del suolo solcato da gole e spelonche, sferzato com’era da venti impetuosi che ne modificavano senza sosta la configurazione.
A nessun abitante di Rivombrosa passava di solito per la testa di recarsi sulla collina vicina. Già, perché a causa dei venti e dell’erosione, Solatia era divenuta alta e minacciosa e qualcuno temeva prima o poi di vederla schiantarsi sul fiume.
Ciononostante si conviveva con la paura, mitigata dalla certezza che così era sempre stato e sempre sarà, e per gli incauti bagni di sole che qualche medico anziano soleva proporre agli ammalati di petto o ai bambini più gracili.
Questi ultimi ingannavano l’attesa e la cura costruendo favolosi castelli di terra e sabbia destinati a dissolversi in un battibaleno. Talvolta si tornava a casa più ammalati di prima, ma almeno più contenti.
Unici veri fruitori del posto divennero ben presto alcune specie di serpenti attirate dai cestini da merenda (carichi di ogni ben di Dio) lasciati talvolta incustoditi da mamme affaccendate appresso ai marmocchi, e altre piccole bestiole che solevano rintanarsi nelle gole affacciandosi di notte a raccattare le briciole.
Quando il figlio del borgomastro di Rivombrosa addentò, convinto si trattasse di un salamino, un ripugnante aspide, ne derivò un putiferio e la comunità decise compatta di vietare (o almeno evitare) le permanenze sull’ignobile collina, oscuro riparo di mostri d’ogni tipo…
Una mattina, il parroco di Rivombrosa scoprì all’interno del confessionale una gatta dal singolare mantello che aveva partorito la sua prima nidiata, sei batuffoli colorati e pigolanti.
Non potendo tenerla con sé incaricò il sagrestano di trovarle una sistemazione adeguata. Questi bussò dappertutto, ma gli fu detto con cortesia che non si poteva fare, giacché tutti gli usci erano già frequentati da gatti nostrani.
Non sapendo che fare, anzi il calar delle tenebre, costui si decise a traghettare mamma e gattini dall’altra parte del fiume, con sufficiente cibo e acqua tal da sfamarla per qualche giorno.
La poverina, ancora indebolita dal recente parto, vide l’umano allontanarsi e dileguarsi fra le ombre; stanca e amareggiata non provò neanche a protestare, pensando in cuor suo che sarebbe tornato.
Passarono i giorni, il cibo cominciava a scarseggiare, nessuno si affacciava.
Le fu ben presto chiaro cosa doveva fare.
Non l’aveva fatto mai, uscire di notte e agguatare una tenera bestiola per saziare i gattini.
Imparò anche a nuotare, cercando di braccare ogni cosa capitasse a tiro.
L’inverno la colse di sorpresa.
Venti gelidi e impetuosi impedivano di uscire dalla tana; le acque del fiume, torve e minacciose, trasformavano rami e detriti in mulinelli vorticosi.
Disperata, dopo giorni e notti di tormenta, incapace di tenere a bada i suoi piccini, la povera bestiola si appressò alla riva e cominciò a miagolare a squarciagola.
Tale fu lo strazio del lamento che tutti i gatti di Rivombrosa colsero l’appello.
Radunatisi sull’argine del fiume ne accertarono la provenienza; quindi, nottetempo, sprezzanti del pericolo, superarono a nuoto le oscure acque del fiume, uno dietro all’altro, tenendosi per la coda.
La gatta stette a osservarli accorrere in suo aiuto; poi li guidò nella sua tana.
Essi impararono ben presto a praticare l’acqua del fiume.
Di notte tornavano agli usci natii per procurarsi il cibo; durante il giorno a Solatia correvano felici con la loro amica sulle spianate scevre di pericoli.
Ma un brutto giorno anche l’acqua del fiume ghiacciò.
Molti gatti perirono nei vani tentativi di solcarlo; altri meno adusi al freddo si ammalarono e il vento di Solatia li seppellì.
A casa loro non si stava meglio.
Rivombrosa fu decimata dai virus, perdendo un gran numero di vecchi e di bambini.
I gatti che sopravvissero al gelo, al riparo nelle gole di Solatia, misero su un mantello fittissimo, simile a quello dei mammut, una coltre spessa e lanuginosa sconosciuta ai loro antenati a quattro zampe.
Messi così sapevano che anche a primavera non avrebbero potuto far ritorno ai loro usci, visto che nessuno li avrebbe più riconosciuti e accettati per com’eran diventati.
Decisero così di rimanere per sempre uniti, generando una stirpe mai vista di creature pelose.
A Rivombrosa, che da allora deve il suo nome più alla tristezza che attanagliò gli abitanti, i gatti-mammut non rimisero più piede.
Ora qualcuno sostiene che i gatti-mammut si siano estinti di lì a poco, o ancor più, che non siano mai esistiti.
Certo è che dagli atlanti è sparito il nome “Solatia”, e solo un cartello sbiadito sulla riva del fiume recita, scritto ad inchiostro, “Rivapelosa”…
(continua)
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