La dinastia dei gatti-mammut (Parte II)

Si narra che Estelle, la sfortunata “ragazza-madre” (insomma la miciotta dall’esotico mantello traghettata in quel di Solatia), non amasse troppo la vita da single, e che, nonostante i buoni uffici dei suoi amici pelosi, decidesse in capo a qualche mese di trovarsi un fidanzato, se non proprio un consorte.
In tal senso civettò con alcuni miciotti niente male, fino a che non conobbe – e ne fu folgorata – uno splendido giovanottone tigrato che prima non aveva notato (dandosi troppo da fare).

Come che sia, Ezechiel (questo il nome del gattone) fece il prezioso, poiché un po’ restio a fare una mossa, o forse perché – come i maligni sostengono – non ancora sicuro della sua sponda…

In men che non si dica la tenebrosa Estelle lo avvinghiò a sé in un connubio amoroso.
A quel punto il micione si comportò da uomo (ovverosia da gatto).

Ogni sera i colombi andavano a tubare al cimitero con la scusa di vegliare sulle tombe degli amici scomparsi; in effetti lì Ezechiel si dava da fare, sistemando con le zampe i banchi di terra spostati dal vento. Per rifarsi della fatica, si strusciava quindi ai piedi della morosa dispensandole languidi sguardi innamorati.

Mentre i colombi se la spassavano, gli abitanti di Rivombrosa si rodevano il fegato: continuavano a chiedersi come mai i loro felini disertassero comodi giacigli e pasti certi in nome di una libertà tutt’altro che sicura.
In realtà i poveretti si sentivano assai defraudati e un poco sfruttati, privati a un tratto di tutte le coccole, le fusa e ogni genere di lusinga di cui i felini eran maestri.
Fino a che i loro mici non fecero neanche più ritorno…

Sicché, quando passò per caso in quei paraggi un noto luminare francese, il Professor Guillaume de Robilant, sostenitore di Darwin, in molti si affrettarono a pressarlo di domande, dopo avergli raccontato dell’insolito accaduto.


Questi volle perfino interrogare lo scemo del villaggio, che da tempo si ostinava a recitare – fra risatine di commiserazione – di aver visto tutti i gatti del paese fermi sulla riva, quindi uno dopo l’altro tuffarsi nelle acque del fiume, come richiamati da una forza misteriosa.
Peccato che il ragazzo fosse un poco guercio e anche un tantino sordo.

Monsieur De Robilant chiese e ottenne – non senza resistenze – d’esser traghettato dall’altra parte del fiume allo scopo di verificare quelli che aveva giudicato come insulsi ghirigori mentali.
Nonostante le perplessità e gli avvertimenti dell’oste che prestò la sua barchetta (e che non era sobrio prima di remare) il dott. De Robilant, con la sua aria francese e il suo cestino da merenda, insieme a una borsa di attrezzi, arrivò a destinazione promettendo di far ritorno l’indomani.
In men che non si dica questi vide l’attempato cantiniere affrettarsi a imbracciare i remi.

Il luminare francese, alquanto scettico e per nulla intimorito dai racconti uditi, si apprestò a montare una tenda da campeggio non lontano dal fiume, per trascorrere la notte un po’ meno all’addiaccio, visto che una malevola brezza si era comunque sollevata…

Trascorsa una notte in apparenza tranquilla, di buon’ora il dottore si avviò in elegante perlustrazione (si era infatti cambiato d’abito), senza incontrare anima viva per diverse miglia.

Cominciava a pensare che gli ingenui abitanti di Rivombrosa avessero montato il caso per darsi qualche aria, visto che da quelle parti non accadeva mai nulla, quando a un tratto si accorse di certi movimenti fluttuanti oltre una radura.
Col suo prezioso binocolo si fermò a scrutare in lontananza, finché comparvero distintamente alla vista un paio di gattini dall’insolito mantello lanoso.

Per quel giorno non fu concesso di vedere alcunché d’altro, ma quella notte stessa il dottore ebbe la netta percezione, o forse il timore, di essere osservato da occhi che brillavano nel buio mentre tentava di assopirsi, serrato nel suo sacco a pelo al riparo della sua esile tenda…
L’idea di essere “attaccato” lo teneva in tensione; ragionava però per formazione, o per farsi coraggio, che pur sempre di gatti si trattava, anche se di felini di quel tipo non ne aveva mai visti…
Si rammaricò più volte di non aver portato con sé, per precauzione, il suo antico – e magari utile – revolver.

Al figlio dell’oste, che lo aspettava puntuale sulla riva all’ora convenuta per riportarlo alla civiltà, il professore raccontò di aver fatto un’interessante escursione e di voler restare ancora un giorno o due per completare la ricognizione.
Il giovane, che non era più sobrio di suo padre, disse che non era un problema e in men che non si dica si dileguò.
Questa fuga repentina e decisa procurò un brivido al nostro esploratore, che appena di spalle all’imbarcazione non era più certo di voler restare…

Nei giorni che seguirono egli continuò le sue perlustrazioni, ma di gattini ultrapelosi ahimè, neanche l’ombra. Era chiaro che la mamma li teneva lontani da quella vaga e sconosciuta presenza umana, di cui certamente percepiva l’odore… sì, perché il prode esploratore non si esimeva, anche se in visita informale, dall’uso quotidiano di colonie profumate e di sigari e tabacco dall’aroma dolciastro.

Solo al quarto giorno, per meglio dire di notte, il dott. De Robilant, complice il paté di tacchino che gli faceva rigirar su e giù lo stomaco, si spinse un po’ oltre la radura; fu lì che rivide i piccoli pelosi sotto il candido splendore della luna.

 

 

Non appena essi intravidero la sagoma fuggiron via terrorizzati; il dottore li prese per la gola, gettando a qualche metro di distanza i resti della cena appena consumata.
All’odore del cibo, i gatti non poterono resistere; per un po’ stettero protesi ad annusare l’aria, facendo un passo avanti e indietro due; alla fine uno di essi si decise.
In effetti ciò gli valse un tenero boccone che non divise con l’amico suo.
Il poveretto rimasto a bocca asciutta, superata la perplessità, si fece avanti: catturato un pezzo se ne stette col suo cibo stretto tra le fauci, quasi a ringraziare prima di fuggir nella distanza. Indi ritornò a raccattare qualche briciola residua.

Dalla taglia più ridotta e taluni atteggiamenti di sottomissione il luminare dedusse – non potendo osservarli da vicino – che uno dei due piccoli fosse una gattina.
La ribattezzò Ginger Ale, in omaggio alla sua – talvolta esagerata – passione per tal bevanda.

 

 

Il dì appresso, alla stessa ora, Monsieur De Robilant ripeté l’operazione e si rivide la medesima manfrina; in capo a qualche giorno i due gattini si facevano trovare oltre la radura in attesa di arraffare qualcosa per la cena.

Quando il francese credeva ormai di averne conquistato la fiducia, tal che poteva restare a qualche metro da loro, accadde che il rumore di un tuono li spaventò. Essi soffiarono e ringhiarono al loro amico umano e uno levò perfino qualche zampata in aria, a scopo difensivo.
L’altro restò a guardare il suo compare con aria intimorita e tuttavia perplessa. Poi entrambi si dileguarono.

Affrettandosi per evitare l’acquazzone, Monsieur De Robilant inciampò su un sasso e cadde rovinosamente fratturandosi un piede. Fu costretto così a far ritorno a Rivombrosa e di lì al suo paese natio.

Quando a primavera inoltrata rimise piede sulla collina, né Ginger Ale né suo fratello lo riconobbero più, e anzi soffiavano e ringhiavano come bestie feroci.
Il perché fu presto chiaro: Ginger Ale aveva partorito una splendida nidiata dal mantello lanoso.

Dispiaciuto, ma in parte soddisfatto, Monsieur De Robilant abbandonò per sempre la collina, eremo impervio di una sconosciuta dinastia.

(continua)

Gamy Moore
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