Al riparo da occhi indiscreti – soprattutto quelli di Monsieur de Robilant – la giovane Ginger Ale crebbe i suoi piccoli (probabilmente nati dall’incrocio con suo fratello Chassy, o più ancora col patrigno Ezechiel).
Due dei sei nati non sopravvissero alla prima settimana; dei restanti quattro solo un paio risultarono reattivi al freddo e alle intemperie e in grado di cavarsela da soli; sì, perché ancora a primavera inoltrata scarse erano le prede e gelida l’acqua del fiume, per cui si era costretti a saltare i pasti per un giorno intero e anche due.
Non ci è dato sapere come riuscissero a cavarsela; tuttavia dei due più forti di quella nidiata si ricordano ora solo le gesta del leggendario Harry, uno splendido miciotto dal mantello grigio e occhi di un profondo azzurro-mare.
Harry amava trascorrere ore e ore sulla riva del fiume; disponendo di una vista assai acuta era in grado di braccare al volo, con maestria tutta felina, qualunque natante ovviamente ignaro delle sue abilità.
Fu durante uno dei suoi giri sulla riva che avvistò di lontano un battello a vapore trainato da un vecchio burbero e assai poco loquace, a nome Eddy Grüber.
Eddy riforniva da tempi immemorabili il circondario di Rivombrosa di ogni genere di spezie, ma in particolar modo di farina e colla di pesce, generi largamente usati nell’arte culinaria (e non solo) della zona.
Giunto a destinazione, Eddy scaricava le merci sulla banchina e attendeva l’arrivo del droghiere, lasciando a fare la guardia alla barca il suo fedelissimo scoiattolo gigante, Makazù, strano e indecifrabile figuro quasi quanto il suo padrone.
Trattato quindi l’affare e sistemato il commercio, Eddy passava un’ora o due nella nota locanda “Ai Bagordi” di proprietà dell’unico oste di Rivombrosa; qui si intratteneva piacevolmente in compagnia di alcune pinte di birra, che sorseggiava menando con discrezione il suo unico occhio qua e là.
Ho omesso infatti di dire che il vecchio Eddy portava una benda scura sull’occhio destro, ormai mancante, o come diceva lui “privo di luce”.
L’aveva perso quell’occhio, il vecchio Eddy, in gioventù, nel corso di una rissa fra gentiluomini ubriachi… e tutto per un apprezzamento di troppo alla sua bella, o quella che lui riteneva tale…
Da allora si era ritirato in un quieto mutismo, più consono alla sua vocazione marinara.
Le uniche parole che scambiava erano i comandi a Makazù, il quale, dapprima un po’ restio, si lasciava immediatamente convincere se adescato con qualche succulenta nocciola, soprattutto se sbucciata.
Già al suo primo avvistamento Harry decise di trasformare quell’oggetto fluttuante e fumante nella sua “gattoniere”…
Con furbizia proverbialmente felina, non appena lo scorse di nuovo in navigazione Harry non esitò a cercare di ottenere l’attenzione del suo nocchiero, il quale, per così dire, non riuscì a non cascare nella pania…
Harry esibì largamente le sue doti di provetto pescatore, e i suoi agili balzi con la preda in bocca, quasi a mostrare al mondo il suo trofeo, gli valsero il sorriso davvero inaspettato e inconsueto di quel volto rugoso.
Alla terza traversata Harry, attirato dal vecchio con un luccio appena pescato, saltò a bordo e con lui prese il largo.
Makazù non ne fu particolarmente contento, ma si sa, talvolta si ha da far buon viso a cattivo gioco, e poiché Harry non sembrava volerselo pappare in un sol boccone, si stabilì una sorta di accordo o di implicita tregua tra loro.
Del resto, a volerla dire tutta, Makazù non era l’unico ospitato a bordo… c’è qualcuno che sostiene che, dovendo scegliere, Harry poteva contare anche su un grosso topo che non di rado si aggirava (e nascondeva) fra i sacchi e le casse delle merci.
Dopo il suo arrivo, comunque, Harry fu nominato “nostromo” e svolse egregiamente per molti anni i suoi compiti, mettendo un occhio in ogni faccenda.
A interrompere la consuetudine, o se volete la monotonia, della navigazione, c’erano, per fortuna, quelle “gradite soste” come diceva Eddy, di cui ben presto anche Harry approfittò…
Perché anche un gatto, benché nostromo, ha bisogno delle sue distrazioni, di tanto in tanto… e gli splendidi occhioni verdi di una micetta che, guarda caso, frequentava l’uscio dell’osteria, valevan bene qualche rimprovero alla fine di una lunga giornata.
Anche Harry, quindi, al pari di Eddy, lasciò il suo segno nella storia di Rivombrosa: il vecchio per il suo torbido passato e il suo utile commercio; il prode micio marinaio per aver lasciato i suoi geni in uno dei rarissimi esemplari di gatti-mammut che si sia mai rinvenuto a Rivombrosa.
A voler essere pignoli, non si trattava proprio di Rivombrosa, bensì di una frazione distante non più di 12 km, conosciuta localmente come “Erbacitrata”.
Ai piedi di una lineare elevazione che giungeva fino e oltre i 600 metri, Erbacitrata costituiva un borgo abitato per lo più dalle maestranze e altri faccendieri in servizio permanente nelle proprietà dei noti principi Landolfi-Spada; questi signori, ovviamente non avvezzi alla nobile arte della coltivazione diretta, avevano affittato le notevoli estensioni collinari ai monaci benedettini per la produzione intensiva di erbe officinali.
Orbene, in prossimità del parto, l’ostessa di Rivombrosa aveva trasferito la giovane Lulù, fidanzata di Harry, da sua zia 92enne, che proprio a Erbacitrata dimorava da oltre un 50ennio, avendo prestato il suo servizio (oggi diremmo “opera”) prima come cuoca, indi come lavandaia, presso i principi Landolfi-Spada.
Ciò si era reso necessario perché non tutti alla locanda vedevan di buon occhio un grosso gatto strusciarsi sotto i tavoli, peggio ancora se di carattere anche un po’ scontroso, come talvolta accadeva a Lulù quando aveva la luna storta, o si vedeva negato un prelibato boccone.
Si racconta che Harry, di ritorno dall’ennesimo viaggio, la cercasse invano per tutta la banchina, spingendosi di notte fin oltre la piazza principale del paese, e che, ahimè, attendendo invano la sua bella, rifiutasse il cibo e gli incitamenti di un padrone disperato.
Certo Harry non poteva immaginare che Lulù fosse emigrata suo malgrado, né che i suoi figlioletti portassero così tangibilmente i segni dei suoi geni, al punto da garantire loro un futuro regale… e se regale no, certamente principesco…
Si dà il caso, infatti, che la giovane e futura principessa Lorena Landolfi-Spada, allora 18enne, sposa promessa al meno giovane, e non aitante, conte Felice Martellotti di Val di Piana (unico esponente di sangue blu nel raggio di 100 km) venisse “folgorata”, come lei stessa ebbe a dire, alla vista della prole della piccola Lulù, ottenendo dietro lauta ricompensa la custodia dei due batuffoli assai pelosi, subito ribattezzati Elettra e Dalton, dal nome degli eroi letterari di questa affascinante donzella.
Ella li portò con sé nella dimora estiva di Rivatorta, coi suoi pur preziosi arredi di rattan e bambù, per non turbare la quiete – mettendo a repentaglio i pesanti drappeggi arabescati– di marito e servitù nella residenza abituale di Casal dei Principi.
Per tutta l’estate i piccoli divennero la sua unica attrattiva, visto che, dopo il matrimonio col conte, questi preferiva largamente dilettarsi, anziché con lei – di cui era apparsa chiara la sterilità – in variopinte battute di caccia al cinghiale o altri affari inerenti alla vita di un giovane blasonato.
Sul finir dell’estate la principessa decise che valeva meglio l’affetto di due figli, seppure adottati, che quello di un marito assai poco zelante; saldato il suo debito con la nonnetta di Erbacitrata, che nel frattempo dei gatti s’era scordata, si trasferì stabilmente nell’elegante magione di Rivatorta, onde prendersi cura – da sola – dei suoi soffici gioielli.
(continua)
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