Per capire la morte non è indispensabile soffrire/soffrirla.
A farci soffrire ci pensa già la vita. Fin dagli esordi.
Soffriamo per mancanza di esperienza, in seguito per stupidità.
La vita ce lo insegna fin da piccoli, così da evitare ancora di mettere le mani sul fuoco, attraversare la strada senza guardare, accarezzare animali randagi. Ci raccomandano a scuola di non fumare nei bagni e non farsi le canne, di preservare il corpo e il cervello dai fumi dell’adolescenza e giovinezza.
Poi crescendo si continua a soffrire perché non si trova un lavoro, perché lo si trova nel posto sbagliato, perché il capo ti stressa o ti palpa; ci si mettono in seguito partner, suocere e marmocchi a rendere la vita un inferno.
Così invochi spesso la morte tua o altrui come l’unica vera liberazione.
E chissà che davvero non lo sia.
Per capire la morte non è utile soffrire.
Deve, o dovrebbe, rimanere un’esperienza teorica il più a lungo possibile.
Non è consigliabile passare attraverso la morte al solo scopo di imparare ad amare la vita. A questo dovrebbe aiutarci l’istinto.
Ma coi tempi che corrono, anche l’istinto non è più quello di una volta.
A un certo punto, però, la morte viene.
Tutti abbiamo qualcuno che è morto, per il quale abbiamo sofferto.
Soffri come un cane, ma sopravvivi anche a quello.
Ma allora, se la morte è a volte una liberazione, o ragionando, la fine necessaria dell’esistenza (una conditio sine qua non) perché ne abbiamo tutti paura, facciamo le corna, gli scongiuri, la viviamo come un evento insopportabile?
Avviene perché la viviamo come un torto, a volte come una punizione, non essendo né l’uno, né l’altra.
La morte che sopraggiunge non lo fa a dispetto, pur privandoci di qualcosa/qualcuno indispensabile per noi (compresi noi stessi).
Sotto questo profilo, non guardando in faccia a nessuno, la morte è assolutamente democratica.
Nessuno si può sottrarre.
In qualche caso si può scegliere anche come morire, privilegio non concesso alla nascita.
Siamo abituati a ragionare per categorie: essere o non essere, vita e morte, bianco e nero, anche se poi ci insegnano che gli opposti si attraggono. Ci prendono dunque in giro?
Se amiamo la vita dovremmo odiare la morte?
Di solito chi odia la vita ama la morte, fa di tutto per arrivarci o affrettarla.
Chi non ha cura e rispetto di sé non fa che avvicinarsi a grandi passi alla morte.
Tuttavia, pur amando la vita non si può odiare la morte.
Essa è connaturata, bisogna solo imparare a convivere con l’idea.
E forse sbarazzarsi di qualche abitudine interpretativa o usanza collettiva.
Per es. i funerali dove tutti piangono, in cui lo strazio si moltiplica anziché cercare di attenuarsi.
Ci siamo mai chiesti perché i funerali sono diversi in ogni cultura, eppure la morte è sempre uguale dappertutto?
Ricordo con dolore ed esasperazione un’annata cinematografica italiana in cui la morte ha fatto da padrona.
A pellicole come Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar (1999) sono seguite Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek e La stanza del figlio di Nanni Moretti, entrambe del 2001.
Un abisso separa la prima dalle altre.
Un’atmosfera grave, pesante, devastante sottende le pellicole italiane, il modo italiano di concepire e rappresentare il dolore per la perdita.
Quello stesso dolore appare più sopportabile, pur non essendo meno intenso, nell’opera dello spagnolo. Nonostante l’argomento, è infatti un film godibilissimo.
La ragione del mio disagio, e poi rifiuto, è probabilmente legata alla visione di film precedenti, dove la morte è sottoposta a strazio, al punto da farcela sembrare un incidente alla Willy Coyote, colui che, pur dilaniandosi sotto il peso dei suoi marchingegni, riesce sempre a rialzarsi e ricomporsi.
In sostanza, se la trattazione deve essere monotonale, preferisco ridere (anche ghignare) piuttosto che inzuppare i fazzoletti.
Alcuni colpi di genio rendono uniche pellicole come The Meaning of Life (1983) dei Monty Python e La Morte ti fa bella (1992), commedia nero-grottesca di Robert Zemeckis.
Bellezza, eterna giovinezza, tempo, immortalità, patto si ritrovano in lungo e in largo nella filmografia internazionale, e nel film di Zemeckis non escono dagli schemi tradizionali, eccezion fatta per gli effetti speciali (che gli valsero l’Oscar nel 1993).
Una soluzione cartoonesca è applicata qui all’universo umano, e le tre protagoniste – M. Streep, G. Hawn, I. Rossellini, peraltro splendide, nonostante la non tenera età – si offrono come contrappunto ad una visione naturalistica dell’esistenza (nel senso dell’accettazione delle leggi di natura) divenendo, come personaggi, dei veri e propri mostri (nell’accezione latina del termine).
Il messaggio finale è che è sempre meglio accettare serenamente di invecchiare e vivere una vita pienamente umana, piuttosto che votarsi ad un’immortalità condannata al sotterfugio e alla solitudine.
Ed è difficile dissentire, considerati i disastri cui i personaggi pervengono e ai quali devono costantemente porre rimedio.
Assai più ardita e dissacrante la trattazione in episodi del mitico gruppo britannico dei Monty Python, un film che è un vero e proprio crogiolo di trovate di forte impatto visivo, al punto da lasciare un’impressione indelebile, anche di disgusto, a distanza di anni.
Come non canticchiare per giorni il motivetto (Every Sperm is Sacred) che accompagna l’episodio del padre cattolico-irlandese costretto a vendere i suoi 63 figli per esperimenti scientifici, perché non più in grado di mantenerli. Come restare indifferenti di fronte all’episodio della crescita, col prof che dà dimostrazioni pratiche durante la lezione di educazione sessuale, o davanti al personaggio vomitoso, per cui è meglio avere già cenato…
Ma più di tutto il tristo mietitore.
Sublime esempio di umorismo nero britannico.
Quella visione della morte ti riconcilia con l’esistenza, per quanto grama essa possa essere.
E ha senso riconciliarsene, perché la vita e la morte in fondo sono la stessa cosa, rovescio della stessa medaglia, poiché ogni minuto, ogni battito, può essere anche l’ultimo, modificando, seppur di poco, il nostro eterno fluire.
Non vi persuade?
In ogni caso, poiché ciascuno ha le proprie convinzioni – che mai mi sognerei di mettere in discussione – concludo con le rime del Magnifico, che per l’occorrenza appaiono appropriate:
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol essere lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
(Lorenzo de’ Medici, Canti Carnascialeschi, ‘Canzona’ di Bacco)
httpv://www.youtube.com/watch?v=mqDYCPLreoU
httpv://www.youtube.com/watch?v=szINT7iht7I
httpv://www.youtube.com/watch?v=9Tf_gInZXcI&feature=related
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Monty Python’s the Meaning of Life, Gran Bretagna, 1983, regia di Terry Gilliam, Terry Jones
La morte ti fa bella, Usa, 1992, regia di Robert Zemeckis
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