Non chiamateli maledetti

 

« Voglio essere poeta, e io lavoro per rendermi veggente: voi non potreste capirci abbastanza, e io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all’ignoto mediante una sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nato poeta, e io mi sono riconosciuto poeta»

(J. A. Rimbaud, Lettre à Georges Izambard, Charleville, 13 maggio 1871)

 

 

 

 

 

 

Alla voce poeti maledetti si legge su Wikipedia:

“Il marchio infamante di maledetto Rimbaud se l’è meritato più di chiunque altro, per la sua lucida rivolta, per la sua intelligenza, per la sua indefessa tenacia nel volere metodicamente scardinare l’ovvio, facendo piazza pulita di ogni tipo di categorizzazione, tanto da potersi definire lui stesso come un essere senza cuore.”

 

 

Non chiamateli maledetti

 

Sprofondare negli abissi (al Cinema) sembra una costante per il bel Leonardo, siano quelli fisici degli esordi (Total Eclipse, Titanic) o quelli, non meno fisici, delle proiezioni interiori.

 

Che DiCaprio fosse un bravo attore non avevo dubbi allora e non ne ho oggi. Alla faccia dell’Oscar.
Del resto è cresciuto a pane e pellicola fin da bambino.

La critica invece qualche volta si inabissa, e tocca il fondo, restando impantanata in un baratro peggiore, che è l’insulso moralismo.

 

Qualcuno ha storto il naso davanti alle scene di amore omosessuale, che a onor del vero, lasciano spazio all’immaginazione, senza mai scendere in sgradevoli dettagli. Patetico è stato definito il tira e molla della triangolazione fra il bisessuale Verlaine, sua moglie, ed il giovane e bell’amante del poeta.

Per tacere di altre osservazioni sul finale.

 

Non riesco a condividere queste posizioni.

Sarà che ormai il triangolo in amore mi appare superato, che nessuna alchimia geometrica mi crea imbarazzo, fatto sta che il film non mi ha per niente scandalizzato alla sua uscita, men che mai a distanza di decenni.

Il film ci mostra, senza inutili pudori, nel ruolo di Rimbaud, un DiCaprio adolescente, al culmine del suo ‘fulgore angelico’, capace di dare forza e capacità espressiva ai voli pindarici di un ragazzo e alle profondità, talora cinismo, per alcuni, dei suoi ragionamenti, avanti di decenni, per certi versi secoli, rispetto alla sua epoca e alla mentalità comune. Uno che parla di Amore per mostrarne i limiti, che sembra possedere scienza infusa in una vita che ancora non è stata vissuta e riempita, lucido e sicuro ancor prima di aver sperimentato, ma forse è proprio questa sua straordinaria sicurezza a non smuoverlo da innaturate convinzioni.

E a portarlo al collasso. Alla chiusura con la Poesia e tutte le sue illusioni.

 

Ma ancora meglio ha fatto David Thewlis (Verlaine), del quale, per par condicio alla controparte femminile, non mancano ampi accenni di nudo integrale.

La sua interpretazione è una splendida incarnazione della debolezza e fragilità di chi è in balia di una forza d’attrazione bipolare, sedotto dalla beltà, dalla sensualità piena e vorace di sua moglie, la giovanissima Mathilde, e nel contempo piegato ai voleri della carne dal connubio esistenzial-poetico con l’esuberante genio ribelle, povero ma terribilmente affascinante perché unico.

Difficile obiettare, dargli addosso, perduto com’è sotto i colpi della Bellezza e dello stupore alcolico che accompagna entrambi gli uomini nella profondità della creazione letteraria e della Conoscenza.

 

Assenzio, la fatina verde, ovvero il terzo occhio del poeta.

Mai tanto celebrato e nel contempo, a torto, demonizzato (per fortuna il tempo è galantuomo).

Rimbaud a suo modo resta immune da alcol o droghe, mantiene sempre un distacco dalle cose, dai sentimenti, pur vivendole/i riesce a non tacerne i limiti.

 

Verlaine sembra voler cercare in qualche modo di preservarle, le esperienze. Almeno alcune.

Parla di Amore per Rimbaud, che il suo amico definisce, da parte sua, come semplice affezione.

Sarà forse convenienza quella che spinge Arthur a condividere il letto e il desco, i tramonti e le peripezie con l’amico Verlaine. Tuttavia ne viene fuori per entrambi uno stato di grazia, quello che porta i frutti più cospicui per la carriera letteraria di Rimbaud, che una volta separatosi per sempre, e giunto in Africa, non troverà più la spinta né il desiderio di continuare a scrivere.

 

Sotto il profilo umano ed etico alcune loro azioni sono senza dubbio riprovevoli (soprattutto gli atti di violenza consapevoli o indotti dallo stato di ebbrezza).

Tuttavia si deve loro riconoscere il merito di avere scardinato molti crismi, portando un vento nuovo in panorami francamente asfittici. La storia ci ha insegnato che le rivoluzioni non sono mai indolori.

Se gli abissi dell’Inferno, come qualcuno li ha definiti, producono simili frutti, allora evviva la discesa agli Inferi!

 

 

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Poeti dall’Inferno (Total Eclipse), UK-USA-Francia, 1995, regia di Agnieszka Holland

 

E visto che siamo in tema, un’abbuffata sensoriale non guasta

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=_WF6nMTVfbY&feature=related

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=sfsndDOdHtc&feature=related

Gamy Moore
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