40 anni, e sono un fallimento su tutti i fronti.
Quante volte l’abbiamo ripetuto, e intorno a noi avvertito come un disco rotto.
A quell’età si è soliti cadere nella trappola dei bilanci, della dichiarazione di ‘fallimento’, della messa in discussione globale di una vita.
Con sadico o masochistico compiacimento, un maledetto segno meno appare davanti a tutto ciò che ti riguarda, e non è dato sperare in un secondo tempo, in una nuova chance, perché l’esame di riparazione sembra svanire a ogni rifiuto – si badi bene altrui – di ricollocarti nel mercato del lavoro e della vita.
Come se ormai non servissi più a nessuno, men che meno a te stessa.
Ci si ritrova spesso così di questi tempi, e soprattutto donne. Donne che soccombono alla crisi, e che ogni giorno ingaggiano una battaglia contro il Tempo.
Tempo impietoso che oltre alla sconfitta pubblica e sociale ti segna dentro e fuori, quando un’oscura palestra di periferia non basta più a garantirti la forma e forza necessarie a una feroce competizione.
La società ti vuole bella, indomita e superpreparata. E se hai virato fuori percorso, se ti sei concessa delle pause, beh allora sarai costretta ad abbassare le pretese, a ridimensionare perfino i sogni a buon mercato.
È così anche per Justine, moderna eroina del tempo digitale, anche se lei vorrebbe vendere la pelle a caro prezzo.
Una settimana, solo 7 giorni per riparare agli errori di una vita. Un matrimonio finito, un investimento dissennato, danno peso infinito a quella spada di Damocle che incombe. Pur di salvarsi dallo sfratto metterà in conto di riciclarsi come submissive di lusso. Lei che submissive è sempre stata.
Justine se lo può ancora permettere: si specchia e si ritrova, nonostante gli eccessi di fumo e della gola – i quintali di zuccheri ingurgitati per addolcire le amarezze, le inquietudini, i giorni e notti mal riusciti. Ha dato e preso tanto dalla Vita, concedendosi strappi e passioni folgoranti, ma ora urge rivedere e ricomporre il puzzle che incornicia la sua vita. Lei che sa di essere, come tutti gli altri, al centro di un mondo tristemente vacuo.
Non c’è più lo spazio/tempo di una volta, l’ormai mitico analogico, spazzato via dalle pressioni di un tempo e di un non luogo digitali. La tua finestra sul mondo si apre sulla liquidità di corpi e immagini che nutrono appetiti ormai solo virtuali e desideri che si spengono nel breve battere di un post e di uno status. Posto, dunque sono. E non ha senso provare a smuovere le acque, ad esportare quell’universo fatto di ombre digitali, di ologrammi, nell’arena del reale. Lì svanirebbe ancora, anziché trovare corpo e vita veri. Meglio evitare cantonate e altre inutili disillusioni.
Se sei davvero solo, nessuno ti verrà in soccorso, nessuno tenderà una vera mano.
O lo farà solo chi intende toccarti – e non il cuore – in altro modo…
Perdersi nella rete, dentro e fuori, per poi ricomporsi con se stessi. 7 giorni di viaggio, di su e giù interiori, di ricordi e speranze, anche tradite. Come il fulmine che uccide, salvando, la Justine settecentesca, qui è un colloquio di lavoro, ormai insperato, il deus ex machina che infonde nuova vita all’eroina, ora capace anche di radunare il suo passato – il guscio che si portava appresso – in un unico fardello destinato al rogo, a una nuvola di fumo, ché i ricordi, i frammenti di vissuto veri, quelli abiteranno sempre sottopelle, incisi e arrotolati nella carne, anche senza segni tangibili a ospitarli.
A volte occorrerebbe fare repulisti, anche senza la minaccia di uno sfratto, ancor prima che il frigo mostri un aspetto desolante. Non pensare a quanto si è sbagliato, ma a quanto si può ancora fare, e meglio. Soli o in compagnia, con o senza nerbi di bue, ma senza lacci.
Schiavi solo della propria libertà.
Più mi lasciano sola più splendo (Alda Merini)
Elena Bibolotti, Justine 2.0, INK EDIZIONI
173 pagine, formato 14×21
14 euro
Ufficio Stampa
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