Alcuni film li amiamo al punto da rivederli ad ogni piè sospinto, altri barcollano o scivolano via senza che nulla, o poco, li trattenga nella memoria.
Qualcuno s’imprime in modo indelebile nel nostro spirito, restando impresso anche negli occhi.
Pochi indimenticabili fotogrammi. È così per la sequenza finale di Thelma e Louise, dall’inseguimento agli intensi momenti che precedono quel piede schiacciato a tavoletta sull’acceleratore verso il vuoto del canyon ma il pieno di una vita vissuta anche troppo intensamente.
A pensarci bene, riavvolgendolo, ci si accorge che momenti da incorniciare ce n’è più d’uno, e insomma che tutto il film alla fine offra scarsamente il fianco ad una critica, perché di fatto se increspature esistono passano decisamente in second’ordine.
C’è quanto basta per far riflettere, sorridere e commuovere, perfino incazzarsi.
Già, perché una punta di amarezza non ti abbandona alla fine, dopo tanto viaggiare e penare insieme a loro, sotto il sole caldo e accecante di un manto stradale polveroso, e il freddo di notti che non consentono tregua ai pensieri.
A rigor di logica non poteva andare diversamente. Se ce l’avessero fatta a passare il confine e riparare in Messico una minore indulgenza nei loro confronti ci avrebbe forse sfiorato.
Un omicidio, una rapina, un sequestro di persona e altri disastri di dimensioni assai più trascurabili non sono cose che si perdonano facilmente, ma nel caso delle due donne che scelgono la fuga, e poi la morte, il peso delle colpe muta di spessore con questa sorta di sacrificio, di espiazione, nessuno se la sente in fondo di condannarle per ciò che hanno subito, a volte per ingenuità, in altri casi per un improvviso annebbiamento della ragione.
Non potevano costituirsi al principio, avremmo visto un altro film, con la galera e tutto quel che di marcio si può pensare all’interno di quelle mura.
Non potevano arrendersi alla fine, tornare sui propri passi mani in alto davanti ad un plotone di poliziotti pronti ad annientarle al minimo gesto fuori posto.
Quello di Callie Khouri (Oscar 1992 per la miglior sceneggiatura originale) era dunque l’unico teorema possibile, la sola chance per costruire un’alchimia non perfettibile, un universo credibile ed incredibile ad un tempo.
Se il cinema è la più potente magia per immagini, un ruolo da indiscusso funambolo per questo film spetta ancor più al navigato Ridley Scott, che alle atmosfere umido-claustrofobiche di un poco auspicabile futuro (Blade Runner) fa seguire dopo un decennio uno scenario che perfino gli agorafobici sono in grado di tollerare ed apprezzare.
Fotografia e musiche completano mirabilmente il quadro.
Splendide, di più, superbe le due protagoniste, Susan Sarandon e Geena Davis, in evidente stato di grazia dentro e fuori la Thunderbird del ‘66.
Insomma, tutto contribuisce a fare di questa pellicola un pilastro nella storia del Cinema.
Dove le donne vincono, non nella forma ma nella sostanza.
Il breve ma durissimo viaggio fa scoprire ad entrambe nuovi valori e nuovi aspetti di sé, e consente loro di dire addio senza rimpianti a una vita che continuando non avrebbe mai più avuto lo stesso senso.
Moglie remissiva, timida, ingenua fino allo sprovveduto, Thelma colma in tre giorni il divario e si trasforma in un’altra, forte, determinata: acquisisce saggezza e lungimiranza proprio attraversando la follia cui gli avvenimenti hanno condotto le due amiche.
Louise, che ha agito d’impulso, uccidendo all’inizio del film, spinta inconsciamente anche dal trauma subito a sua volta in precedenza, probabilmente intuisce con largo anticipo rispetto a Thelma di non avere scampo, e di dover affrontare da sola l’unica estrema conseguenza, scoprendo invece che la donna che la affianca l’ha di colpo raggiunta in termini di maturità e consapevolezza.
Fa meno male morire allora se in quella scelta non ti senti solo e perduto, ma ti ritrovi in due.
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Thelma & Louise, Usa, 1991, regia di Ridley Scott
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Già.
(G.M.)
Indimenticabile: visto e rivisto, mi ha sempre lasciato dentro qualcosa, tristezza, speranza, a volte rabbia, profondamente condiviso.