8 aprile 1968, mi laureo in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli.
Indeciso tra la carriera universitaria (forse prestigiosa nel futuro ma senza una lira nel presente) e la carriera di principe del foro (stanno aspettando proprio me), provo a iniziarle tutte e due: faccio l’assistente volontario con un prof emerito che non merita d’essere ricordato (1200 a statino firmato) e il procuratore legale.
A uno alle prime armi gli unici clienti che trova sono quelli “Recupero Crediti”, all’epoca gli strozzini con le cambiali.
Dopo un po’ comincio ad acquistare consapevolezza di avere sbagliato entrambe le scelte di lavoro. Fare lo sciacquino di un barone universitario e in aggiunta il legale degli strozzini non è il massimo della vita.
Dagli strozzini cominciano ad arrivare i primi soldi ma non è questo il lavoro della vita.
E’ iniziato un nuovo mondo: “Auto, moto, dischi e i prodotti di moda legati al consumismo mi opprimono, tutti con lo stesso maglione, tutti devono ascoltare lo stesso cantante, tutti devono indossare gli stessi jeans. E per fare ciò occorrono soldi.
Se no non sei nessuno.
Intanto all’università folcloristicamente “drogati di delirio di potenza”, i gruppettari stravedono e mitizzano immagini, ideologie e rivoluzioni terzomondiste. Nasce il sogno della rivoluzione prendendo in prestito i modelli dalla Cina, da Cuba, dal Vietnam e persino, colmo dei colmi, dall’Albania.
Non ho più la voglia di seguire le fantasie delle mosche cocchiere che si possono permettere il lusso dell’attesa della rivoluzione permanente grazie ai soldi di papà e mammà.
Per me, forse per caso o forse perché comincio a capire o forse perché sono stufo di prendere i soldi dal cassetto del comò della camera da letto dei miei genitori, finisce il folclore sessantottino, mi taglio i capelli e divento grande.
Ma non mi inquadro e non voglio restare nella merda
Basta con il recupero crediti degli strozzini, basta fare lo sciacquino al barone universitario.
Se devo avere un padrone piuttosto che Don Gennaro ‘o Struzzino o il prof emerito meglio lo Stato.
E allora meglio i concorsi, anche se si tratta di andare al Nord , di emigrare.
Sempre Italia è.
20 luglio 1969. Notte della luna, della TV con Ruggero Orlando e Tito Stagno, con il piede sulla scaletta e con l’applauso di Houston e di tutto il mondo. Sono più o meno le cinque del mattino. E dopo aver visto il piede che scende dalla scaletta, senza aver dormito parto per Roma per fare un altro fottutissimo concorso: all’INPS.
Faccio fatica a memorizzare la sigla, la mia futura suocera che lavora nelle Poste: “ah chille i Santu Rumminiche”. L’INPS all’epoca aveva i suoi uffici napoletani in Piazza San Domenico, a Palazzo Corigliano dove ora c’è la facoltà di Lettere dell’Orientale.
Quella mattina c’è solo l’identificazione, nei due giorni successivi le due prove scritte, quella di Diritto Amministrativo e quella di Diritto del lavoro.
Tutti i concorrenti arrivano in abito da concorso, giacche foderate di compiti arrotolati e cartucciere in vita.
Io senza giacca e senza cartucciera: fa troppo caldo, poi mi fido di me stesso e infine chi se ne frega se non lo supero, ho dato un’occhiata agli uffici di Napoli, sono di un avvilimento unico: montagne di carte, gente in fila che litiga e una schiera di strascina faccenne. Insomma la situazione è peggiore degli uffici della Pretura dai quali voglio scappare via.
Armstrong e Buzz Aldrin mi portano bene e mi fanno compagnia nel palazzo dello sport a Roma.
Escono due compiti fuori pronostico: quello di Diritto del Lavoro è “Le modificazioni oggettive e soggettive del rapporto di lavoro”; quello di amministrativo è un compito assurdo sulla giustizia amministrativa.
Quelli con le cartucciere sono sconvolti, mentre nei due giorni la Bic nera a punta fine, con il logo INPS, scivola rapida sui fogli rigati anche loro marchiati INPS. Penso tra me e me: “Ma che mettono il loro marchio ovunque, anche sulla carta igienica” . Mi sembrava una battuta, ma avrei scoperto più avanti che era vero.
Nei banchi intorno a me, tutti con la stessa lettera del cognome, qualcuno mi chiede stupito: “ma cosa stai scrivendo ?”
Ed io: “Ho parlato con la luna e scrivo della luna! Forse!”
E infatti, fui ammesso agli orali e dopo gli orali anche essi superati, il 20 luglio 1970 arrivo a Trento in pieno temporale estivo.
La sede INPS si trova in una strada il cui nome è tutto un programma:Via delle Orfane!
Mica segnali tanto incoraggianti.
E così entro nel mondo del lavoro.
E da allora cerco di migliorare il mondo intorno a me.
Ci ho provato e ci provo ancora.
Ah dimenticavo, dovevo parlare di un libro e mi son fatto prendere la mano con le memorie e visto che ho parlato di anticaglie ci azzecca Niente orchidee per Miss Blandish.
In quegli anni oltre agli Urania leggevo anche i Gialli Mondadori, uscite settimanali, con grande irritazione di mia madre che non capiva perché spendessi tanti soldi in libri, cinema e dischi (magari su questi ultimi argomenti ci ritornerò).
I Gialli per fidelizzare (come si dice ora – allora si usava dire per fare affezionare) in occasioni di ricorrenze particolari, tipo Natale o il numero a cifra tonda, tipo il numero 500 o 600, pubblicava autori importanti tipo James Hadley Chase, Ellery Quenn, Agata Christie.
A me piacevano i gialli di scuola americana, il giallo inglese mi annoiava.
Tra i miei favoriti c’era J.H. Chase e un suo romanzo, Niente orchidee per miss Blandish, dal quale fu tratto anni dopo il film Grissom gang di Robert Aldrich. Il romanzo era stato stampato nel 1950 da B. Tedeschi Istituto Editoriale Italiano ed era introvabile. Eppure lo trovai sulla solita bancarella di Piazza Cavour, peccato sia andato perso nei vari traslochi.
Ringrazio Maria Laura Villani per l’editing
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