Scrittore, commediografo, paroliere di canzoni, sceneggiatore di numerosi film di successo, di Marotta vanno ricordate anche le gustosissime recensioni cinematografiche apparse sull’Europeo alla fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60.
Nato nel 1902 e morto nel 1963 su di lui è calata una sorta di “damnatio memoriae” da parte della critica militante ed accademica: non gli si perdonavano sia il successo di vendite, sia il fatto di scrivere per il cinema, sia la semplicità di scrittura.
Una delle accuse più ricorrenti era: scrittura ruffiana e rassicurante.
Questa presunta ruffianeria la ritengo un pregiudizio, forse dovuta al fatto che non aveva uno stile “enfatico” e di denuncia come si usava a quel tempo.
Lo prova questa recensione dell’Avventura di Antonioni, celebratissimo “maestro” del cinema.
La condivido totalmente e ne cito solo la conclusione:
Spettacolo? Sciocchezze. C’è una magnifica Sicilia, frugata palmo a palmo da un ottimo, geniale operatore. Datemi l’una e l’altro e sono regista anche io. L’avventura, cioè, non offre la minima soluzione del problema Antonioni. Gli dicono romanziere e non mette insieme che aneddoti; gli dicono psicologo e rimane alla superficie di ogni creatura; gli dicono letterato e, in fatto di linguaggio, è sulla paglia. Michelangelo, ti do un suggerimento fraterno: agguanta un copione di Zavattini, o di Suso Cecchi D’Amico, o di Ennio Flaiano, e attualo senza metterci, di tuo, che la indubbia conoscenza del mezzo cinematografico. Vedrai l’esito. Prego, non c’è di che. Anna è Lea Massari, per la quale ho un debole: molto brava nel suo personaggio d’aria. Monica Vitti (Claudia) la preferisco sul video. Un Gabriele Ferzetti (Sandro) men che mediocre (avrà talento, ma alla banca).
E’ un giudizio che nasce spontaneo in qualunque sventurato spettatore delle elucubrazioni filmiche di Antonioni , ma che non si ha il coraggio di esternare.
Una sequenza intollerabile per la sua inutilità e falsità
Marotta massacra il “grande maestro” con un linguaggio semplice e coinvolgente che tutti i suoi lettori -e ne erano tanti- erano in grado di comprendere. Tutto ciò agli accademici dal linguaggio alto e supponente dava e da fastidio.
Altra accusa: il bozzettismo buonista di Napoli e dei napoletani.
Altro pregiudizio!
Lo prova una scena cult dell’Oro di Napoli, film di De Sica, tratto dal romanzo omonimo del nostro: il pernacchio di Eduardo versus il Duca Alfonso Maria Santagata dei Fornari.
Non mi pare tanto tanto rassicurante, ruffiano e buonista.
Tutto le opere di Marotta sono attraversate da una vena “cattiva” che va ben oltre i luoghi comuni della napoletanità da cartolina, del napoletano allegro che mangia solo pizza e suona il mandolino. Marotta scrive di una Napoli per nulla solare, anzi è quasi sempre piovosa e triste.
C’è una raccolta di racconti introvabile dal titolo “Salute a noi” (tradizionale intercalare usato quando si parla di morti) che si svolge in un’impresa di pompe funebri ed ogni racconto parla di un morto.
Peccato che i detentori dei diritti editoriali (per la maggioranza Bompiani) non hanno mai pensato di riproporre le sue numerose opere.
Eppure Marotta ha avuto e sta avendo numerosi epigoni.
Tanto per dire: il celebrato De Crescenzo, nei suoi fattarielli sull’antica Grecia, ha raccolto a piene mani da “Gli alunni del sole” ed il vendutissimo e letto “Così parlò Bellavista” deve molto ai numerosi racconti di Marotta.
C’ è una frase che Marotta pronunciò verso la fine della sua vita che racchiude mirabilmente la sua filosofia:” Uffa. Che odiosa età è la mia. Ho atteso un centinaio di millenni il momento di nascere e quasi non mi va di attendere, per i tre o quattro anni che mi restano da vivere, il momento di morire.”
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