Che Manzoni non fosse uno stinco di santo ed un baciapile lo sanno tutti, malgrado la vulgata letteraria lo voglia far passare come un santino, tutto casa chiesa e divina provvidenza.
Don Lisander, memore dei suoi trascorsi parigini quando giovincello, viveva con la cara mammina, donna di mondo, una volta ritornato a Milano e messo su famiglia, non aveva perso le antiche abitudini e non si perdeva nessun nuovo arrivo nelle più accorsate maisons de plaisir di Milano.
Ovviamente utilizzava le salette riservate con ingresso posteriore.
Oltre ad essere un esagerato puttaniere, era anche ferocemente taccagno ed avido di danaro.
Quando la Curia di Milano gli commissionò, pagandogli anche un congruo anticipo, una storia che celebrasse il Cardinale Federigo Borromeo, il furbo don Lisander, che come tutti gli scrittori era un seguace della celebre LEGGE DEL MAIALE (non si butta via niente), revisionò un romanzo di ambientazione seicentesca che stava scrivendo da tempo, ispirato ai romanzi libertini del settecento, con personaggi a tutto tondo dediti più al vizio che alla virtù.
Con la scusa di andare a risciacquare i “panni in Arno”, si fece pagare dalla Curia un lungo soggiorno in quel di Firenze, dove sistemò il romanzo secondo le esigenze del committente, ma frequentò anche i migliori casini fiorentini che in quegli anni erano famosi perché ospitavano bellissime puttane di origine anglosassone, per le esigenze della nobile clientela inglese che sin da allora amava svernare sulle colline fiorentine.
Una volta che fu pubblicato I PROMESSI SPOSI, nella versione che tutti conosciamo, Don Lisander pensò bene di distruggere tutta la precedente versione, guai se quel testo fosse capitato in mani sbagliate, si sarebbe completamente sputtanato, perso la faccia e le congrue royalty della Curia di Milano.
Per fortuna qualcosa è sfuggito alla sua bigotta furia distruttrice ed è giunto il momento di svelare al mondo il lato oscuro di Manzoni.
Ecco questi due frammenti, brevi sì ma molto significativi perché ci fanno comprendere quello che poteva essere il romanzo più dissacrante della nostra letteratura.
Si tratta di una lettera che don Rodrigo scrive a Lucia e di un monologo dello stesso Don Rodrigo.
Alla mia amatissima Lucia
Oh mia diletta, mia dolcissima, in che posso ubbidirvi?
Le vostre parole mi fan vibrare di piacere, ma io aveo già letto nei vostri occhi e nel vostro corpo virgineo, ma tanto in attesa di carezze, una risposta di accondiscendenza alle mie bramosie.
Voi parlate alla mia coscienza, alla mia mente, al mio corpo, voi parlate ed io vi rispondo.
In che posso ubbidirvi?
Il vostro promesso Renzo non mi da né cura, né preoccupazione.
Poche sante legnate, ben assestate sul suo fondo schiena plebeo, da parte dei miei bravi, lo metteranno a tacere e se non bastasse ancora allora agirò con le buone: qualche scudo d’oro e si calmeranno tutti i suoi bollori.
Ciò che mi infastidisce, anche troppo, e devo dirvelo, è la visita di quel frate.
Con la sua tonaca e con le sue parole arroganti è venuto a turbare la letizia della mia mensa e la serenità dei sapienti conversari dei miei commensali.
Non è il frate in sè che mi infastidisce, ma le sue possibili aderenze presso la curia a Milano. Malgrado la tonaca, l’ho compreso quale uomo di corte e di spada e perché no anche aduso, anche se nel passato, alla beltà femminile.
Oh mia diletta, non vorrei che tu abbia donato le tue grazie al malnato frate.
E Dio non voglia che così fosse!
Mal gliene incoglierà, ma anche tu pagherai il fio.
Come dice il mio cugino napoletano, sua eccellenza Antonio di Capodimonte y Guzman principe di Casador: “ site ‘a femmena mia!”
Non dimenticatelo!
Ho cacciato via quel villano rincivilito che pretendea di trattarmi da par suo. Ei deve ringraziare il saio che ricopre quelle spalle di mascalzone che lo ha salvato dalle medesime carezze che vorrò fare a quel rozzo tuo promesso sposo.
E così il frate uscì, incolume, dalla mia dimora con le sue gambe.
Veniamo a noi ed ai nostri progetti.
Io non esito, come voi stessa auspicate.
Stanotte miei servi passeranno a prendervi e sarete mia.
Un’ora dopo il vespro, al segnale della civetta voi uscite sul vostro verone e attendete fiduciosa.
Vi bacio l’orlo della veste,
Il vostro Rodrigo
MONOLOGO DI DON RODRIGO
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata stette rintanato nel suo palazzotto a scrutare chi osasse approcciarsi per far commercio carnale con le fantesche del maniero.
Nessuno si approcciò al maniero e se fosse stato altro che quel mormoracchiare continuo della gente nelle filande, su in paese nelle locande verso Milano, avrebbe pensato che trattavasi di un incubo da eccesso di vino.
La notizia che correa di valle in valle era che Lucia, la sposa di don Rodrigo, radunava giovini contadinotte, di bell’aspetto e di piccola morale in un casale poco discosto dalla strada che da Lecco menava a Milano.
Una volta era una locanda, ma ora non si mescea vino, nè si cuocevan minestre.
In quelle mura le fanciulle radunate da Lucia facean mercimonio carnale di sè con i ricchi mercanti che passavan di lì.
La voce correa ed ogni notte la fila in attesa si facea sempre più lunga.
E di questo mercimonio Lucia avea ricca prebenda, mezzana attenta e feroce.
Don Rodrigo, dopo una notte insonne a cagione del trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, pieno di affanno ed irritato si ripose sul suo seggiolone, cominciò a fare toletta da solo ed a fare galoppare la mente.
Ma ben presto si levò e cominciò a camminare a passi infuriati su è giù sul pavimento traballante, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile.
Ed intanto mormorava tra i denti:
“Proprio a me di tanto nobil lignaggio, dovea accadere tanto angoscioso evento, che ha condotto per man di quella lercia plebea il disonore nella mia magione avita. I miei avi si rotolano nella tomba per tutto questo. E me lo disse il conte zio mettendomi sull’avviso. E cosa t’importa degli altri, prendila, fanne commercio carnale e lasciala al suo pari. Ed invece le donai il mio cuore e la feci mia principessa. Ed ora più non mi dona le sue grazie nascoste in uno strato di epa tremolante. Ed io inseguo nei campi e nelle filande graziose giovani che si fan beffa di me, la malattia, dalla quale miracolosamente ebbi a guarire, ha lasciato nelle mie viscere e nei miei umori una maledizione che con il tempo mi ha fatto perdere il mio vigore.
Ebbi solo tempo di inseminare la malnata per ben tre volte e far si che desse tre eredi alla mia casata. Ma tutti e tre portano negli occhi, nelle membra e nelle opre, maggiori tracce della plebea fattrice.
Ed ora, dopo che tanto fallai nei miei congressi carnali, tutti nelle vallate sanno la mia debolezza e ogni volta che mi appropinquo ad una giovane essa, per beffeggiarmi, si alza le vesti e mi mostra le bianche terga urlando: “Don Rodrighino dall’attrezzo piccolino”.
Non mi sento più di uscire di casa ed ora quest’altra vergogna.
Tutti questi provocatori, soverchiatori, che tanto male mi stanno facendo non solo devono essere responsabili davanti al Signore del male che commettono verso di me, ma anche del pervertimento che stanno portando nella mia anima.
Io sono uomo pacifico e alieno dal sangue, schietto e nemico d’ogni insidia; eppure quando mi urlano Don Rodrighino hai l’attrezzo piccolino, in que’ momenti, il mio cuore non batte che per l’omicidio e la vendetta. Ed ora che so che la mia sposa è mezzana di mercimonio carnale e forse anche essa, malgrado l’epa debordante, fa mercimonio di sè, la mia mente non vuole che la vendetta.
Vorrei afferrare per il collo quelle puttanelle bercianti a culo nudo, afferrarle, farle inginocchiare davanti a me, mostrar loro l’attrezzo e…
La mia connaturata pudicizia mi impedisce di andare oltre anche con il pensiero, ma un cerusico di Milano mi ha detto che con l’ira la situazione dovrebbe migliorare.
E Lucia?
Appena questa parola mi si getta nella mente, le più bieche fantasie ed i peggiori pensieri v’entrano in folla. La darei in pasto ai predoni che calano dalla Svizzera o ad una truppa di mercenari alemanni, da lunghe fiate assenti da congressi carnali e che ne facciano scempio di quelle carni flaccide, di quel corpo olezzante ancora di tanfi di filanda.
Che il demonio la trascini nell’inferno più profondo… e vi resti per l’eternità.
Eccola, ora mi chiama.
Tesoro mio, mia sposa amata, dimmi in cosa ti posso ubbidire?”
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e perché non inserisci anche il bimani….?
lo inserirò, non era mio, per questo non l\’ho fatto
mettilo tu claudia…nei commenti
Appena ho un pò di tempo e riesco a ripristinare il collegamento internet con http://www.aldila.com vi darò la versione del Lupo nella storia di Cappuccetto Rosso.
Bellissima questa versione alternativa del romanzo di don Lisander. Scritta con maestria potrebbe essere l’inizio di un nuovo esercizio letterario, riscrivere le storie più famose in termini opposti. Troppo simpatico.
@Maestra Carla … sei perplessa? Mi piacerebbe sapere perché?
Mah……
ma è vero?
Potrebbe essere vero. Quanto meno è verosimile.