E dai, passala!

Era di cuoio, bianco e rosso. O perlomeno questo si poteva ancora intravedere tra le tante cuciture, protuberanze, tagli, graffi, bozzi che lo componevano.

La forma era ancora più o meno tonda, quello sì. E rimbalzava ancora bene.

La fortuna era quella di avere un padre sarto, che ogni volta che il pallone si bucava, lo scuciva, toglieva la camera d’aria, la riparava, rimetteva dentro e lo ricuciva di nuovo, con un ago lungo e un filo di cotone di quelli grossi, da pacchi.

Quello era Il Pallone. Il migliore, quello delle partite più importanti. Quando c’era quel pallone sembrava di essere al Monumental o alla Bombonera (a seconda dei gusti personali). Comunque, niente campetti di periferia. Quello era grande calcio gente!

E noi ci si perdeva dietro, interi pomeriggi. Il campo da gioco era il primo spazio libero a disposizione. Se c’era l’erba, meglio.

Campi in terra erano la normalità, quelli in cemento andavano bene lo stesso. I peggiori erano quelli con la graniglia: piccoli sassetti appuntiti sterminati tutto attorno. A volte pure qualche pezzo di bottiglia rotta che spuntava fuori dal fango a mettere in pericolo le piante dei piedi. Non dico le scarpe, che quelle si usavano moooooooooolto poco.

Certo, non sempre era possibile usare quel meraviglioso pallone (anche le toppe per la camera d’aria costano, e tenendo conto che ne andavano via due o tre a settimana…) e così comparivano i sostituti.

Che, il Tango? Il famigerato Supertele? Ma scherziamo? Si aveva comunque un minimo di dignità, suvvia. O un vecchio calzino pieno di altri vecchi calzini o una palla di stracci legata con un bel po’ di filo a dare forma quasi rotonda. Tanto, a pedate bisognava prenderla.

I pali della porta erano a volte dei bastoncini piantati come si poteva, a volte dei mattoni, sassi, scarpe (ricordo. Bisognava toglierle visto che solo quelle avevamo) o le maglie, tanto a correre ci si scalda.

Partite così ne ho giocate tante. Ogni momento libero era buono. Era quello il famoso “Futbol del potrero”, quello di Maradona e di tanti campioni argentini. Calci in libertà, ogni momento e in ogni luogo. Il divertimento più economico e più fruibile, visto che campi aperti in Argentina ce n’è fin Amen.

Ricordo partite del genere anche in Portogallo. Una volta son partito con due amichetti dal paese di mio padre e abbiamo camminato una decina di chilometri per sfidare altri tre del paese vicino: solita storia, sterrato in mezzo a un bosco e la partita finisce quando va giù il sole. E poi tornare indietro con le gambe stanche, tutti sporchi ma ebbri di amicizie rinforzate e di sfide comunque vinte anche se la partita si è persa.

E quella volta che mi sono storto la caviglia appena iniziato a giocare e sono andato avanti per due ore! Quante me ne ha dette mia madre. Del resto, la caviglia sembrava un pompelmo.

Ma non era importante, l’importante era esserci, correre, scappar via e se ci scappava segnare pure un bel gol, che non guasta mai.

Crescendo si sceglie e io come sport ho scelto il rugby. Un po’ per consapevolezza mia, un po’ per spinta paterna. Non me ne pento, anzi. Ma crescendo a volte si vuole sperimentare.

Del resto per me il calcio era stato tutto da piccolo, e mi sarebbe piaciuto provarci veramente. Così, complice un infortunio, ho provato a giocare a calcio, seriamente, in una squadra vera.

Beh gente, sono tornato a giocare a rugby perché mi facevo meno male. Sono macellai quelli là, altro che storie: entrate da dietro, pedate a pallone lontano e poi la cosa più assurda e più ignobile di tutte, la simulazione.

E non parliamo di serie A, bensì di ragazzini di 13-14 anni (e so per certo che si comincia anche prima).

Lì mi sono disamorato del calcio come sport, visto che sport più non è. Si potrebbe chiamare scuola di teatro, ecco, quello andrebbe bene. O anche scuola di vita, in effetti riflette bene la maggioranza del pensiero italico nel vivere civile: non è mai colpa mia, casomai del campo, del mister o di quella troia della moglie dell’arbitro. Oltre alla scusa morale del vincere imbrogliando: “Sì, mi son tuffato ma mi hanno dato il rigore e abbiamo vinto. Visto come li ho ciulati a quelli là?”. Vi ricorda nessuno?

Il calcio giocato l’ho riscoperto più avanti, campetto piccolo e calcio a 5, puro divertimento tra amici con birra a chiudere la serata. Sfide vere ma in amicizia, niente trofei se non il puro divertimento. E un bel po’ di prese in giro, ovvio.

Perché un gioco, ogni gioco, altro non dev’essere che questo: divertimento. Quando manca, il suo stesso spirito scompare.

Il calcio non è quello dei multimiliardari in calzoncini che si rincorrono. E nemmeno quello dei pulcini inquadrati in squadre allevamento, pronte a tirar fuori le gambe migliori e sacrificare tutto il resto.

Il calcio rimane quello dei bambini (o dei grandi…) in un prato, dietro una palla che si ferma solo quando non la si vede più.

Quello, in definitiva, di Memorino e della Pallastrada, magnificamente cantato da Stefano Benni ne “La compagnia dei Celestini”.

La strada per il gioco la si trova sempre. L’importante, è trovare anche lo spirito.

Con Affetto

 

IK

 


Passarla, la passano sempre per far gol, l’Elvira e la Paola

httpv://www.youtube.com/watch?v=xdCrZfTkG1c

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