Emigrante

7 Agosto 1980. Aeroporto Ezeiza, Buenos Aires.

Parte il volo dell’Aerolineas Argentinas, destinazione Roma. A bordo, una vecchia signora di 82 anni, sua figlia di 44 e un bimbo piccolo, 7 anni e mezzo. Dal “finger” (il tunnel che porta all’aereo) i tre si fermano a guardare sotto, nella sala d’attesa ci sono un uomo e due ragazze, che salutano, fazzoletti in mano.

Il bambino piange, e tira la mamma dentro l’aereo. Le lacrime non sono per il paese che abbandona, e nemmeno per i familiari che lascia a terra, o almeno non consapevolmente.

Le lacrime escono al vedere gli altri tristi. Non so perché, è una cosa che mi succede ancora oggi: quando vedo qualcuno che piange, che soffre, mi emoziono e mi commuovo.

Sì, quel bambino sono io: sono passati trenta anni, e in Argentina sono tornato solo una volta, tre giorni, per lavoro.

Nel frattempo ho girato il mondo, per lavoro, e vivo all’estero, da emigrante pure io: probabilmente è una cosa che ti entra nel sangue, una specie di dannazione. Se cominci a girare, difficile fermarsi.

Ma la mia è una emigrazione specialistica, quella dei “cervelli in fuga”, un buon lavoro, un ottimo stipendio.

Non la migrazione della disperazione, della fame, del bisogno.

La migrazione che hanno fatto i miei insomma: partiti subito dopo la guerra dall’Italia e dal Portogallo per trovarsi in Argentina, amarsi, fare una famiglia e provare a darle un futuro.

Trenta anni di fatiche, di rospi da mandar giù, di battaglie (tante) e soddisfazioni (poche). Trenta anni per poi ritrovarsi ancora a ricominciare, a migrare al contrario: ritornare alla casella di partenza, senza però prendere le 20.000 lire passando per il via.

Lo descrive molto bene Bubola, quando su “Camicie Rosse” dice:

A volte il coraggio è come la fame

Che parti randagio per terre lontane

E mangi pane e lacrime e le lacrime sono acqua salata

Che più ne bevi e meno ti disseta

E a volte il coraggio è di ritornare

Senza aver fatto fortuna dall’altra parte del mare

 

Ce ne sono di cose da raccontare: dovete sapere che per quasi tutti gli emigrati il tempo non passa: la terra d’origine rimane esattamente quella che era quando si è partiti, non migliora, anzi, forse peggiora. E allora dopo aver venduto tutto in Argentina mio padre ha imbarcato un paio di casse di cose importanti da portare in Italia, cose che sarebbero state difficili da acquistare: i materassi e i cuscini, per esempio!

O c’è il mio primo impatto con la “fettina”, quella cosa che in molte parti d’Italia si ostinano a chiamare anche “bistecca”: un pezzo di carne tagliato con l’affettatrice,  rimossa di tutto il suo grasso e poi messa a cucinare su una piastra con abbondante olio sopra (altrimenti diventa dura – e ti credo, stai cuocendo una suola di scarpa!). Dopo averla vista, abituato alla carne argentina, ho detto a mia mamma: “Torniamo a casa, per favore.”

Ricordo la fatica dei miei: mia madre che ha iniziato come lavapiatti in una pizzeria, poi ha trovato lavoro in una fabbrica. Mio padre che da sarto si è dovuto trasformare in custode di un condominio (ossia far le pulizie) di giorno e guardiano alla fabbrica dove lavorava mia madre di notte. Questo per una decina d’anni almeno.

E poi i viaggi in Portogallo, per vedere la terra di mio padre e anche per fargli avere i suoi documenti (al tempo non c’era la comunità europea, e lui, portoghese, aveva bisogno del permesso di soggiorno). Il primo viaggio è stato meraviglioso: tutta la famiglia, cinque persone, su una Renault 11, stracarica, con il portapacchi sopra e su di esso una pila di bagagli alta un metro e mezzo. 2300 km andata, 2300 km ritorno. E alle frontiere tenere sempre a portata di mano qualche bottiglia di vino o Porto da destinare alle guardie per evitare che controllassero tutto quanto c’era in macchina.

I soldi non sono mai stati abbastanza: ci sono stati momenti molto duri, umiliazioni da mandar giù e il costante, continuo, camminare sul ciglio per riuscire a pagare le banche, i prestiti, il cibo e quanto altro.

E anche la sfortuna, perché quando uno nasce sfortunato, c’è poco da fare, hanno ragione a Napoli: “Ci piovono cazzi in culo anche quando sta assittato”.

Siamo stati tra i primi emigranti di ritorno: in Italia era un fenomeno nuovo, quindi aiuti nulla. Dopo 2-3 anni è cominciata l’orda, tutti cercavano di rientrare, di trovare un passaporto italiano e rimpatriare nella terra d’origine, o quantomeno di origine dei padri o nonni. E la politica italiana ha annusato odore di voti ed è andata in soccorso: case, aiuti, soldi. Ma solo per quelli nuovi, noi essendo arrivati prima, nulla.

Ho visto la gioia nei volti dei miei al vedere tutti i figli sposati, li ho visti ringiovanire vent’anni al vedere i nipotini.

Ho visto mio padre consumarsi, piegarsi sotto gli sforzi, tornare a casa distrutto il mattino, dormire tre ore ed andare al lavoro di nuovo. Lo vedo soffrire di artrite e artrosi e di sbalzi di pressione che rischiano di ucciderlo ogni momento.

Ho visto mia madre soffrire in silenzio, piangere, litigare. Ma mai perdere la sua forza. Era sempre lei a tirare avanti, a occuparsi di tutto, a spiegare come fare questo e quello, a prendersi cura dei bambini piccoli, aiutando a tirarli su. L’ho vista illuminarsi alla vista del piccolo Davide: in quel momento ho rivisto per l’ultima volta la madre che conoscevo, forte, allegra, pronta. Poche settimane dopo un male terribile l’avrebbe portata via, proprio quando era arrivata la sua pensione, quando il loro percorso errante poteva raggiungere una fermata definitiva e un po’ di tranquillità economica.

Trenta anni. Duri, belli, indimenticabili, sofferti. Trenta anni per capire cosa sia una famiglia, una vita, la dignità e quali sono le soddisfazioni e le cose importanti. Ogni volta che guardo dietro, trovo un insegnamento per il domani.

Ci sono molti libri che parlano di emigranti, di vite cambiate, di situazioni difficili. Uno di questi è Strawberry Fields, che ancora non ho finito di leggere e quindi non posso ora dirvi la mia. Ma visto il tono di questo post, mi piace chiudere consigliando un bellissimo breve gioiello: La stanza dello scirocco di Domenico Campana.

Direte: cosa c’entra con quello che scrivi? E io vi dirò: non eravamo d’accordo che vi avrei parlato dei libri cercando di trasmettervi i sentimenti e le emozioni e non una descrizione della trama?

Leggetelo. E poi tornate qui a lasciare il commento.

 

Con Affetto

IK

 

Giudizio di La stanza dello sciroccoDomenico Campana, Sellerio 1986: può una stanza, un luogo, riparare dal passare del tempo? O forse può solo illuderci?

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=Npr_Qcfx48o

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16 Replies to “Emigrante”

  1. mi è piaciuto, forse complice l’emozione. Con un titolo così, però immaginavo di leggere dell’Argentina, invece è una storia di emigranti al contrario, forse lo intitolerei: Il ritorno.

    Ho letto “La stanza dello Scirocco”, il primo libro sulla Sicilia di una trilogia che arriva ai giorni nostri, consiglierei di leggere anche i seguenti di Domenica Campana: L’isola delle femmine e I giardini della favorita, entrambe di Einaudi

    1. Grazie del commento. Non credo sia un ritorno. Quando sei emigrante lo sei per sempre. Quando torni, torni su un paese diverso, nuovo, non torni da dove sei partito.

  2. Adoro questo racconto di vita. Ogni tanto lo leggo e mi commuove sempre. Anche se sono nata a Forlì e residente dalla nascita, e la mia apoteosi di immigrazione sono stati i meravigliosi anni 70 a Bologna a “studiare”…

  3. ” vivo all’estero, da emigrante pure io: probabilmente è una cosa che ti entra nel sangue, una specie di dannazione. Se cominci a girare, difficile fermarsi.”

    come ti capisco, 29 anni e quasi 20 traslochi alle spalle. alcuni nella stessa città, quasi tutti in Italia. l’ultimo mi ha portato in spagna, chissà che il prossimo, come sembrerebbe, non mi porti in argentina….

  4. Un bel ritorno dalle vacanze rileggerti!
    Emozionante, come sempre; vado alla ricerca del libro e poi commento.

  5. Le esperienze degli emigranti sono toccanti e fanno riflettere.

    A qualsiasi epoca essi appartengano, le loro storie hanno in comune, partenze obbligate, viaggi lunghi e talvolta scomodi, l’angoscia dell’ignoto e la speranza di una vita migliore.
    Molti non riescono a stare lontano dalla terra d’origine e tornano a casa.
    In questo libro che si può scaricare grautitamente a questa pagina (http://www.infoprodottidautore.com/emigranti/?page_id=222) c’è descritta la loro esperienza.
    Io personalmente da quando l’ho letto,vedo in modo diverso gli emigranti che da altre nazioni vengo a cercare un’opportunità in Italia.

    Beannah.

  6. He sido en tantas tierras extranjero
    digamos que recorrí los bulevares
    como si fueran el desierto de atacama
    o me abracé más náufrago
    que nunca a mi tablón de cielitos y gardeles

    pese a todo no dejé de cavilar
    en mi español de alivio
    aunque me rodearan lisboetas o bávaros
    ucranianos o tesalonicenses

    y así fui construyendo la pasarela
    de mi regreso terminal…

    Mario Benedetti – Aqui Lejos (1989)

  7. Grazie Antonella. Il complimento più bello è il sapere che hai letto “La stanza dello scirocco” e ti è piaciuto.

    Al prossimo articolo.

  8. Leggere i tuoi ricordi,seppur tristi,è come leggere un romanzo.
    Riesci sempre ad emozionarmi.Dirti che sei bravo,mi sembra quasi di sminuirti.Grazie.
    Per quanto riguarda”La stanza dello scirocco”,che ho letto tempo addietro,su tuo consiglio,hai ragione è un piccolo gioiello.
    Mi riporta ai sapori di una terra che conosco bene,ma per commentarlo bene,devo riprenderlo e rientrare in quella stanza.
    P.S.Bentornato Juan

  9. Certo, e serve anche a me per ricordare che non posso sempre accusare gli altri di valutazioni affrettate e poi fare altrettanto io.
    Ciao

  10. Sto pensando che, a volte, anche “cazzeggiare su facebook” può avere i suoi aspetti positivi. Fa parte dei miracoli della rete!

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