Con questo articolo inizia oggi “InkKiller Presenta”: i migliori articoli preparati dai lettori, scelti da me e presentati a tutti voi.
Chiunque vuole può partecipare, ma ricordate: recensioni particolari e scrittura interessante.
Vi attendo numerosi!
Si chiamava Josif, Josif Ballarin, era così alto e magro da meritarsi il nomignolo di “telpon”, pioppo in veneto.
Nato nel 1969 da padre idealista (solerte lettore dell’Unità, filosofo autodidatta formatosi sul Gramsci carcerato e sul leniniano “Che fare” letti in vaporetto al ritorno dal petrolchimico), allattato sotto il ritratto di Stalin e svezzato sotto quello di Che Guevara, Josif si era innamorato del suo nome.
Provava solo un po’ di fastidio quando gli altri festeggiavano l’onomastico, ma don Ilio, parroco di Malamocco, gli aveva intortata bene la faccenda: a fronte di padri scriteriati la Chiesa aveva stabilito che la festa di Ognissanti andava bene per tutti: Ivan,Vladimir, Iller e altri nomi bolscevichi di orfani del lavoro od altro.
Perché ecco, Josif era un orfano “altro” : a differenza degli orfani di Favaro Veneto, Mogliano, Mestre ed altre città dormitorio di Marghera, i cui padri erano schiantati a causa di impalcature difettose, fughe di ammoniaca, incendi di cloro butano, carrelli elevatori impazziti, gru condotte da ubriachi e quant’altro, lui era un orfano speciale.
Il padre, Gabriele Ballarin, detto “ Cagasassi” per il suo carattere intransigente e roccioso, era stato ammazzato di botte nell’aprile del 1974 dai mazzolatori del Fronte Nazionale.
Diplomatosi in qualche modo geometra alle serali, riuscì nel 1988 a trovare lavoro a Pontelagoscuro come tecnico del locale zuccherificio. Nel 2006 l’Eridania chiude lo stabilimento, Josif non ha la specializzazione richiesta, anzi, gli zuccherifici chiudono uno dietro l’altro, di lavoro non ne trova e si arrabatta in qualche modo.
Come se non bastassero a disastrargli la vita la perdita del lavoro e della morosa (che a lui aveva preferito un bancario viscido e leccaculo, ma di solide prospettive), a gennaio del 2009 una Peugeot 205 targata Reggio Calabria, condotta da un albanese privo di patente ed assicurazione, lo stira per il lungo mentre attraversava il terraglio con la speranza di trovar lavoro come lavapiatti in una pizzeria.
Frattura esposta di tibia e perone, frattura semplice di clavicola, ulna, radio e 4 costole, in pratica tutti gli arti sinistri del suo corpo erano stati devastati: era un perfetto sinistrato.
Ricoverato d’urgenza, Josif Ballarin occupava il letto 6 della camera 4 del reparto di ortopedia presso l’ospedale Ca’ Foncello di Treviso.
Il novantunenne don Ilio gli aveva portato quel mattino un po’ di generi di conforto: due fette di crostata avanzate dal festino dell’ultimo giorno di dottrina, un pezzo di mandorlato Balocco giacente in sacrestia per misteriosi motivi, ma ancora incartato e non scaduto, una bottiglia da 375 cc di Picolit di Nimis, dono di un ex compagno di prigionia.
Quando don Ilio si rimboccò le maniche della tonaca, cercando di trovar sollievo dall’afa acre e stagnante dentro alla stanza, Josif notò lo sbiadito tatuaggio sull’avambraccio: T 13358. Si leggeva appena, ma si leggeva.
Anche Sisto Nieddu era un orfano speciale, nacque il 12 settembre del 1975, otto giorni dopo l’omicidio del padre da parte del brigatista Carletto Picchiorri.
Suo padre, uno degli elementi di spicco della colonna padovana di Terza Posizione, era famoso come cacciatore di rossi, sprangatore di autonomi e si era guadagnato una certa fama grazie alla stampa che diede parecchia eco ad una serata in cui Bachisio Nieddu aveva preso a calci nel culo un’intera sezione di Lotta Continua, da solo ed armato soltanto di un paio di pedule della Nordica. Non fu perdonato.
Sisto era quel che si può definire “un bravo ragazzo”: dopo il classico si era laureato in giurisprudenza a Padova. Lavorava in uno studio legale alle solite condizioni: niente stipendio.
Era fin troppo un bravo ragazzo, così lo studio legale decise che i praticanti erano in soprannumero e, non importava da quanto era lì e il fatto che fosse sempre stato corretto e preciso nei suoi compiti, l’avevano lasciato senza lavoro un lunedì di febbraio del 2007. Stomacato da avvocati notai, questure, preture e tribunali, sopravviveva grazie alla pensioncina di mamma e quei pochi euri che guadagnava suonando d’estate in un piano bar e d’inverno ai matrimoni e alle feste aziendali.
Basso, tarchiato, tutto di lui tradiva la paternità sarda: aveva grandi occhi neri, vivi e irrequieti, un naso sefardita e le labbra sottili e secche, la pelle color carta pecora, con le stesse grinze, un pizzetto incerto e puntuto.
Rimasto solo con la madre dopo il divorzio da Anna, malmostosa informatrice sanitaria poco incline alla fedeltà, senza figli, trascinava a fatica un’esistenza ormai smobilitata dai sogni.
Qualcuno gli chiese di andar a suonare in una sala d’incisione, il pianista se ne era andato in Brasile ad inseguire sogni e serviva qualcuno che sapesse suonare un piano Fender come il cantautore di turno richiedeva, cioè alla perfezione.
Come avvocato Sisto non valeva una patacca, ma seduto ad un piano elettrico o con una fisarmonica sulle spalle incarnava la musica, trasformava sensazioni in suoni, trasmetteva più emozioni lui che cazzate il TG4.
Erano le tre di notte, avevano appena inciso un blues di una banalità disarmante, lui era stato pagato, era finita, ma non riusciva a togliersi dalla mente alcuni passaggi che avrebbero sicuramente reso più dignitoso il pezzo, e soprappensiero si accese una sigaretta.
Non si accorse in tempo dei fari di una Peugeot rossa con a bordo un albanese ubriaco che arrivava contromano.
Scoppiarono gli airbag, l’abitacolo si riempì di polvere, il motore, sospinto dall’urto, spaccò il longherone dello sterzo e si fermò contro le gambe di Sisto ustionandole e frantumandogli le tibie.
Rimase lì, svenuto, per una ventina di minuti. Riprese conoscenza in ambulanza: gli dissero che l’albanese era morto, poi riempito di sedativi, non comprese più nulla.
Occupava il letto 4 della camera numero 4 del reparto ortopedia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso. Aveva di fronte un tizio conciato peggio di lui, almeno a giudicare dal fatto che aveva un prete al capezzale.
Don Ilio portò un po’ di torta a Sisto, gliela porse con modi lenti e misurati, Sisto accettò, i tre iniziarono a parlarsi, a raccontarsi gli avvenimenti che li avevano portati lì. Nei giorni seguenti a Sisto, a causa delle ustioni, vennero amputate ambedue le gambe sotto il ginocchio, Josif dovette rassegnarsi alla perdita dell’uso del braccio sinistro.
Il cuore di don Ilio cedette una mattina della prima settimana di luglio, lasciandoli soli a rimuginare su quale possibile futuro. Josif guardò Sisto negli occhi prima di parlargli, poi, con un po’ d’indugio, disse : “Senti, io sono figlio di un comunista ammazzato dai fascisti, tu sei figlio di un fascista ucciso dai comunisti, cosa ne dici se ci mettiamo assieme? Io spingo la tua carrozzina e reggo il piattino, tu suoni la fisarmonica, facciamo i soldi così”.
Sisto sorrise, ma in fondo, in effetti, restava poco altro da fare. Si scoprì anche che Josif aveva una voce intonata, un po’ brusca, ma efficace, si chiamarono “il duo ciompo” e iniziarono a suonare nelle piazze, fino al triste giorno in cui un piccolo ministro si inventò la legge che per suonare nelle piazze pubbliche serviva il permesso, il borderò e il pagamento della quota SIAE, fatti salvi i cantanti napoletani il cui paroliere rivesta uno dei 4 ruoli principali dello stato italiano.
Sisto non aveva problemi a compilare moduli, non era quello il problema, il problema era che le canzoni che cantavano avevano titoli come “ Va cagar Brunetta in riva al fosso” o “ Tremonti de sora el cueo te sfora, Tremonti de sotto te vegnesse el cagoto” e vennero immediatamente diffidati dall’esibirsi in pubblico, in base alla legge, approvata un mese prima, che bandiva qualsiasi riferimento anche velato, alle attività del governo in canzoni o spettacoli pubblici.
Così, l’alba del sette luglio del 2015, Sisto Niedda e Josif Ballarin, si portarono sulla statale 14, all’altezza di località Tre scalini, sul tratto di strada chiamato “Il chilometro lanciato”, un lungo rettilineo dove la sera le auto in transito raggiungevano i 130 km orari.
Dopo aver atteso un paio d’ore sul ciglio della strada, appena intravide una vecchia Peugeot rossa, Sisto diede il segnale: “Adesso!”
Josif lanciò la carrozzina contro l’auto. Dopo lo schianto controllò che Sisto fosse morto, attese che l’autista scendesse dall’auto (un albanese ubriaco fradicio) quindi, incurante della gente che si era fermata per prestare ormai inutile soccorso a Sisto, si allontanò cantando un’ultima canzone, con un libro in tasca: “Il ritorno” di Giuliana Sgrena.
Un bel libro, lo aveva letto volentieri.
Per quello decise di vivere, nonostante tutto.
Evandro Davide Luca della Serra Levi Modena nasce il 15 giugno del 1961 a Tel Aviv da genitori italiani con passaporto polacco emigrati in Israele per un disguido telefonico.
Rimane orfano all’età di nove anni a causa dell’estrema perizia di un mortaio siriano che gli sbriciola il padre e viene spedito, praticamente per posta, al nonno materno, col quale condividerà l’adolescenza e una dignitosa povertà.
Si mantiene facendo il pianista di piano bar, il lavapiatti, il portiere d’albergo.
A 19 anni è già padre e a 20 già non lo è più.
Degli altri 30 anni passati non ricorda granché, forse perché non gli è successo nulla degno di esser ricordato, tranne l’aver comperato una casa e dei terreni in Africa pur non avendo mai incontrato Karen Blixen.
Scrive perché non ha nulla di meglio da fare dopo cena.
httpv://www.youtube.com/watch?v=Gv3tF2PpjRE&feature=related
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